mercoledì 21 dicembre 2016

Joan Mirò e i surrealisti

Joan Miró nasce a Barcellona il 20 aprile 1893. All’età di quattordici anni frequenta l’Accademia di Belle Arti di Barcellona. Tre anni dopo trova lavoro come contabile; ma colpito da esaurimento nervoso abbandona il commercio e riprende gli studi d’arte, frequentando dal 1912 al 1915 l’Escola d’Art di Francesc Galí. Nel 1917 incontra Francis Picabia e l’anno dopo tiene la sua prima personale nella galleria del mercante d’arte José Dalmau, a Barcellona. Nel 1920 si reca per la prima volta a Parigi dove incontra Pablo Picasso. Da allora divide il suo tempo tra Montroig, in Spagna, e Parigi, dove frequenta i poeti Tristan Tzara e Max Jacob e partecipa alle attività dada. Nel 1921 Dalmau gli organizza la prima personale a Parigi, alla Galerie La Licorne e nel 1923 l’artista partecipa al Salon d’Automne. Nel 1924 aderisce al gruppo surrealista. Del 1925 è la personale alla Galerie Pierre dove, nello stesso anno, partecipa anche alla prima mostra dei surrealisti. Nel 1928 visita i Paesi Bassi, dove inizia una serie di dipinti ispirati ai maestri olandesi e realizza i primi papier collé e collage. Del 1929 è la sua prima esperienza nel campo della litografia; le sue prime stampe risalgono al 1933. All’inizio degli anni trenta esegue composizioni scultoree surrealiste con inserzioni di pietre dipinte e oggetti vari. Nel 1936 lascia la Spagna a causa della guerra civile; vi ritornerà solo nel 1941. Dagli anni quaranta vive stabilmente a Mallorca, terra d’origine della madre, e a Montroig. Nel 1941 il Museum of Modern Art di New York allestisce un’importante retrospettiva del suo lavoro; nello stesso anno inizia a lavorare la ceramica con Josep Lloréns Artigas e, dal 1954 al 1958, ad occuparsi di stampe. Nel 1958 riceve il Guggenheim International Award per le decorazioni murali del palazzo dell’UNESCO a Parigi; l’anno successivo riprende a dipingere, iniziando una serie di tele di grandi dimensioni. Negli anni sessanta si dedica intensamente alla scultura monumentale. Nel 1974 il Grand Palais a Parigi allestisce un’importante retrospettiva; nel 1978, al Centre Georges Pompidou di Parigi, espone oltre cinquecento opere in occasione di una vasta retrospettiva. Muore a Palma di Maiorca il 25 dicembre 1983.
Il carattere “rivoluzionario” del Surrealismo si rivela quale avvio del progressivo tentativo di liberazione dell’uomo da quei processi di sopraffazione messi a punto dalla precisione “tecnologica” del potere (quella che Foucault chiamava “biopolitica”), e che si rivela anche oggi, innanzitutto nell’intento di un controllo – come ha rivelato Agamben ? nella limitazione dell’effettiva proprietà del proprio corpo. Tale processo di biologizzazione della politica, negli anni dei surrealisti, troverà una manifestazione senza precedenti nella politica (razzista) del Nazismo. È in questo senso che sarà da intendere il recupero, evocato da Breton, di una visione artistica che non fosse contaminata dalla ragione, asservita all’utilità sociale, al sistema di potere.

mercoledì 14 dicembre 2016

LO SKA

Verso la fine degli anni Sessanta la contestazione giovanile portò con sé un’improvvisa ondata di violenza nelle strade delle capitali occidentali. Il fenomeno, che toccò il suo apice a Parigi nel celebre maggio del ’68, non sfiorò incredibilmente quella città che per prima aveva reclamato per i giovani un ruolo diverso nella società: Londra. Carica di una tradizione di una democrazia particolare e patria di grandi marce della pace, la capitale inglese non conobbe né le barricate né le molotov della contestazione giovanile. Fu così che l’opinione pubblica rimase doppiamente sorpresa davanti a quelle immagini che i notiziari improvvisamente
diramarono in una serata dell’estate 1978: uno dei quartieri più popolari, quello di Portobello, era illuminato dalle vampate delle bottiglie incendiarie. Era il carnevale caraibico di Notting Hill, celebrato nel quartiere londinese con la maggior presenza di immigrati di colore, che si concludeva violentemente. Il primo di una lunga serie di carnevali violenti. I motivi delle sommosse non erano soltanto razziali. Emarginazione, disoccupazione, mancanza di alloggi e pessima qualità di vita avevano da tempo affratellato i giovani della Giamaica e della Martinica con una vivace generazione d’inglesi, ormai distante dalle conquiste dell’età dei Beatles, rodata nel mito della violenza punk, alla ricerca di qualcosa capace di sopire le delusioni, lenire le ferite.
Lo ska revival a Portobello Poad nacque così, in una mescolanza disperata di bianchi e neri, tra boccali di birra in buie cantine, rieducando il suono acerbo di un rock schematico, duro ed elettrico sulla plasticità tutta particolare di una musica caraibica chiamata ska. La divisa? Zazzere corte e spesso impomatate, vestiti scuri di taglia larga, cravatte argentee, scarpe bicolori con suola spessa, occhiali scuri e borsalino calato sulla nuca.
Lo ska è scoperta imprevedibile. Nel panorama della musica commercializzata giamaicana è insieme radice e coprotagonista del reggae. In essa si racchiudono i pochi elementi di una musicalità elementare: la preponderanza dell’elemento ritmico, il tempo accelerato in levare, l’accostamento negli arrangiamenti degli ottoni ai primi temi del beat britannico.

sabato 10 dicembre 2016

L’essenziale è essere collegati

Noi ci atteniamo alle forme morali e condizionali della libertà, mentre chi ha il potere di determinare la natura delle categorie di interpretazione del reale giunge sino alla forma incondizionale, parodistica, parossistica, di liberazione dell'immagine, di liberazione attraverso l'immagine. Non si vede perché l'immagine, una volta liberata, non dovrebbe avere il diritto di mentire. E' anzi probabilmente questa una delle sue funzioni vitali, ed è ingenuo pensare che si è liberata a profitto della verità.
L’immagine, e con essa l'informazione, non è legata ad alcun principio di verità o di realtà.
Il vero problema delle società attuali, allora non è più la sovrapposizione di beni, ma l'eccesso di produzione di informazioni nel sociale, che rovescia paradossalmente "la società dell'informazione in una società afasicà”, sempre più incapace di parlare.
L'informazione invece di fare comunicare si esaurisce nella messa in scena della comunicazione. Si gioca a parlarsi, a sentirsi, a comunicare, si gioca con i meccanismi più sottili di messa in scena della comunicazione.
L’essenziale è essere collegati, anche se non si ha nulla da "dire".


giovedì 1 dicembre 2016

LA RICOTTA di Pier Paolo Pasolini

Alla periferia di Roma, un regista inerte e sfiduciato che si atteggia a "intellettuale di sinistra" gira gli esterni di un film oleografico sulla Passione di Cristo. Mentre tecnici, attori e comparse svolgono il loro lavoro senza convinzione e in clima di baldoria, il sottoproletario Stracci, che interpreta la parte di uno dei ladroni, oppresso da fame atavica e dal problema del mantenimento di una moglie e di quattro figli, durante un intervallo delle riprese mangia troppa ricotta e muore di indigestione sulla croce.

Va posto un legame tra le due opere, il Vangelo edificante, estetizzante del suo Orson Welles regista, dove è affermato che chi muore crea lo scandalo, e il suo Vangelo Secondo Matteo, i cui protagonisti sono tutti proletari. Bisogna mostrare da dove lei è partito e quale cammino a percorso. (Jean-Paul Sartre, in "l'Unità" 22 dicembre 1964)

Si sa che per Marx il Lumpenproletariat era oggetto di disprezzo, e anche per le correnti che si richiamano alla sua dottrina simili frange disfatte della società borghese valgono unicamente in quanto elemento di rottura; Pasolini il marxismo è uno dei tanti temi mentali contemporanei di cui egli si impadronisce con l'intelligente dilettantismo del fiancheggiatore. (Gianfranco Contini, "La letteratura italiana", Sansoni, Firenze 1974)

Il mondo del"Passato", della "Tradizione", delle città antiche e di una intera civiltà precapitalistica, è riaffermato da Pasolini come vero "moderno" rispetto alla "Dopostoria" neocapitalistica. Gian Carlo Ferretti, "Pasolini: l'universo orrendo", Editori Riuniti, Roma 1976) 

mercoledì 23 novembre 2016

Coscienza mistica

Il dominio  dell' alcool  sull' umanità è indubbiamente  dovuto  al  suo  potere di  stimolare  le  facoltà   mistiche  insite  nella  natura  umana,  normalmente schiacciate  dai  freddi  fatti  e  dall' arido  criticismo  dell'ora  sobria. La  sobrietà  diminuisce,  discrimina  e  dice  no.
L'ubriachezza  espande, unisce  e  dice  sì.  E'  di  fatto  il  più grande  stimolatore  della  funzione del  SI'  nell'uomo.  Porta  il  fedele  dalla  gelida  periferia  delle  cose  al radiante  nucleo.   Lo  rende  per  un  istante  una  cosa  sola  con  la  verità. Non  e'  solo  per  pura  perversità  che  gli  uomini  lo  inseguono.   Per  il  povero e  l'illetterato  l' alcool  sta  al  posto  dei  concerti  sinfonici  e  della  letteratura  ed  è  parte  del  più  profondo  mistero  e  della  tragedia  della  vita che  soffia  e  balugina  di  qualcosa   che  immediatamente  riconosciamo  come   eccellente    e  che  dovrebbe  essere  concesso  a  così  tanti  di  noi  nelle  prime fasi  di  ciò  che,  nella  sua  totalità,  è  un  veleno   così   degradante.  La  coscienza  ebbra  e'  una  parte  della  coscienza  mistica,  e  la  nostra  opinione globale  di  ciò  deve  trovare  posto  all' interno  di  quel  piu'  grande  tutto. 

domenica 13 novembre 2016

Buon viaggio Leonard Cohen

Uno scrittore prestato alla musica, diventato con gli anni un personaggio di culto nel campo della canzone d'autore. Diviso fin dalla giovinezza fra l'amore per le lettere e il gusto per il folk, Cohen studia in Canada e intorno alla metà degli anni Cinquanta si trasferisce a New York, dove comincia a pubblicare poesie. Nel 1959 ottiene una borsa di studio e parte per un lungo viaggio in Grecia, stabilendosi nell'isola di Idra: li rivela le sue qualità letterarie scrivendo racconti, liriche e anche un romanzo Il gioco favorito, che ne fanno conoscere il nome negli ambienti letterari. Tornato in America consolida la sua fama con altre opere Flowers for Hitler, e Parasites of heaven dove vi è traccia di alcuni testi che anni dopo diverranno con successo canzoni. Nel 1966 la cantautrice Judy Collins esegue due brani di Cohen nel suo album In my life, suscitando grande interesse per il personaggio, che esce allo scoperto l'anno dopo con un'apparizione al festival di Newport e a un concerto della stessa Collins, al Central Park di New York. Il successo è notevole e porta a un ingaggio discografico con la Columbia, che nel 1968 pubblica Songs Of Leonard Cohen e l'anno seguente Songs From A Room.

Fu subito chiaro che non sarei potuto sopravvivere facendo solo lo scrittore. Avevo appena pubblicato "Belli e perdenti", anno 1966, accolto da recensioni eclatanti in tutto il mondo e discrete in America. Ma le vendite erano disastrose. Decisi di diventare cantante per risolvere i miei problemi economici. Decisione saggia col senno di poi, ma sciocca come presupposto, visto che ci sono più cantanti che scrittori a morire di fame. Gli appassionati di letteratura cominciarono con il prendermi meno sul serio; chi ascoltava musica pensava a me come a un poeta che musicava le sue poesie, e non apparteneva comunque al mondo della canzone.

Quando ascoltai Dylan per la prima volta, quando compresi ciò che stava facendo mi resi conto che interpretava un ruolo che io avevo progettato per me stesso. Mi dava proprio fastidio che lui ce l'avesse fatta e io no.

Mi interessa l'uso combinato di parole e musica perché crea qualcosa che i due elementi non sono in grado di offrire separatamente. Il che non significa che la somma delle parti sia comunque maggiore delle parti singole. E' semplicemente un prodotto diverso. Musica e parole insieme alterano i significati della musica e delle parole separate. Ma non esiste conflitto. Così come è assente lo stridio tra musica e letteratura, tra lo spartito e il foglio di un libro. Seduto a un tavolino qualunque, non vedo conflitto. Scrivo. Questo è ciò che conta: riempire pagine.

Garcia Lorca, è stato lui a spingermi involontariamente verso la letteratura. Avevo 15 anni quando mi accostai alla sua opera. Il primo verso che lessi fu "voglio passare sotto gli archi di Elvira per vedere le tue cosce e piangere". Quella frase distrusse la mia vita, compresi che la mia esistenza sarebbe stato uno sforzo continuo per scrivere, un giorno, una frase come quella. Lavorare a "Poet in New York", l'omaggio a Lorca, è stato dunque un grande onore e ho deciso di inserire "Take This Waltz" anche nell'album "I'm Your Man". Tra l'altro, mia figlia si chiama Lorca.
Leonard Cohen, Adam Cohen,  Lorca Cohen, Suzanne Elrod,


giovedì 10 novembre 2016

L'Anarchia di Carlo Cafiero

Anarchia, oggi vuol dire l’attacco, la guerra ad ogni autorità, ad ogni potere, ad ogni Stato. Nella società futura l’anarchia sarà difesa, l’impedimento innalzato contro la restaurazione di ogni autorità, potere e Stato: piena ed intera libertà dell’individuo che, liberamente e spinto soltanto dai suoi bisogni, gusti e simpatie, si unisce ad altri individui nel gruppo o nell’associazione; libero sviluppo dell’associazione che si collega in federazione con altre nella comune o nel quartiere; libero sviluppo delle comuni che si federano nella regione e così via; le regioni nella nazione; le nazioni nell’umanità. Il comunismo, cioè la questione che ci interessa in modo particolare, rappresenta il secondo puinto del nostro ideale rivoluzionario. Esso è attualmente ancora l’attacco; non è la distruzione dell’autorità, ma è la presa di possesso, a nome di tutta l’umanità, della ricchezza esistente nel globo. Bisogna sottolineare, soprattutto nei confronti dei nostri avversari, i comunisti autoritari o statalisti, che la presa di possesso e il godimento di tutta la ricchezza esistente spettano al popolo stesso. Niente intermediari o rappresentanti che finiscono sempre col rappresentare solo se stessi, no ai moderatori dell’eguaglianza e tanto più ai moderatori della libertà, no ad un nuovo governo e ad un nuovo Stato, sia che si dica popolare o democratico, rivoluzionario o provvisorio. In effetti, la minima idea di un limite qualsiasi contiene già in sé i germi dell’autoritarismo. Non potrebbe manifestarsi senza comportare immediatamente la legge, il giudice, il gendarme. 

giovedì 3 novembre 2016

NOVE GIORNI DI UN ANNO di Michajl Romm

In una centrale atomica un fisico viene contaminato dalle radiazioni durante un esperimento nucleare; i giorni che lo separano dall'intervento chirurgico, che lo deve strappare alla morte, si svolgono nella ricerca, attraverso il suo rapporto con la moglie e un amico, del significato della scienza e del progresso umano.


Da nove anni non facevo più un film. Da nove anni non facevo più nulla. Avevo sessant'anni e volevo fare qualcosa di nuovo e, soprattutto, volevo fare un film più giovane di me, perché il cinema è un'arte giovane. In poche parole non volevo iniziare la lavorazione di un film senza aver prima risolto degli interrogativi che erano in me.
(Michajl Romm, in "Cinema Nuovo" n.174, marzo-aprile 1965)

Credo che potrei essere inserito in questa tendenza - il "cinema poetico" esemplificato da La ballata di un soldato di Cuchrai e da L'uomo che segue il sole di Michail Kalik - giacché non amo seguire un intreccio serrato e dei rapporti logici. Non mi piace cercare giustificazioni alle azioni degli eroi. Dall'altro lato, troviamo quello che in URSS chiamano il "cinema intellettuale" di Michajl Romm. Benché un tempo sia stato suo allievo, non posso dire niente di questo cinema, perché non lo comprendo.
(Andrej Tarkovskij, in "Lettres Francaises", 13 settembre 1962)

Il tema della guerra continua ad affascinare il cinema sovietico, ma l'interesse si rivolge soprattutto al contrasto tra i valori umani - valori di pace - e le distruzioni belliche. I registi sovietici si rivelano più imbarazzati nel trattare la realtà della vita contemporanea. Ma notevole è lo sforzo di onesta narrativa in Nove giorni di un anno, uno studio sulla vita dei giovani scienziati.
(John Howard Lawson, "Teoria e storia del cinema, Laterza, Bari 1966)
Michajl Romm

mercoledì 26 ottobre 2016

Inalare freon René Daumal

Dopo tutta una serie di fenomeni ben conosciuti da coloro che hanno subito un’anestesia generale (rumore di motore a scoppio, formicolio di punti luminosi, ecc), i fosfeni assumevano all’mprovviso un’intensità tale che, anche a occhi aperti formavano davanti a me un velo, impedendomi di vedere dell’altro; nello stesso tempo si disponevano in un mosaico di cerchi e di triangoli, neri, rossi e bianchi, inscrivendosi e circoscrivendosi gli uni cogli altri e muovendosi in base ad una logica rigorosa per quanto geometricamente assurda. […] Con un'evidenza, una chiarezza di cui non posso dare la minima idea, tanto questo carattere di certezza, di necessità assoluta è ignorato dal pensiero umano normale, capivo il senso, sconvolgente, disperante per la sua semplicità come per la sua evidenza, di quel movimento visivo e sonoro: l’ultima parola di tutto, la spiegazione, detta tramite la voce di un assoluto di crudele ironia, dell’esistenza del mio spirito, stava in una specie di ragionamento ultra-logico terribilmente semplice, impossibile da tradurre. Non ho mai accettato, e non potrò mai accettare la fede cristiana in una dannazione eterna; tuttavia in quel momento, che posso recuperare se lo voglio in pochi istanti, ho la certezza, semplice e clamorosa, d’essere proprio io il solo essere irrimediabilmente perduto (e la parola perdita è soltanto una vaga approssimazione) che non sono altro, proprio io, che un semplicissimo circolo vizioso. 

venerdì 21 ottobre 2016

Le radici della DISCO

Disco è il termine che indica una musica up-tempo, comandata dalla batteria in 4/4, molto ballabile e variamente orchestrata che si è evoluta dagli standard musicali adoperati dalle discoteche per tutti gli anni Settanta. Nasce come musica delle minoranze. Nere, spagnole, omosessuali. I primi disco-club dell'area newyorkese spuntano proprio negli ambienti gay (Flamingo West 12, Paradise Garage). Solo in un secondo momento, quando l'industria impone poco religiosamente le mani sul genere, la fruizione si allarga indiscriminatamente a tutti, facendosi trend e smarrendo in parte le motivazioni di partenza.
Il fenomeno della disco music, oggi più semplicemente definita dance, è sempre stato fortemente criticato ed osteggiato dagli amanti del rock, specialmente in Europa, dove questo genere non possedeva le stesse radici che in America. In effetti, sotto molti punti di vista, la disco music ha rappresentato una semplificazione, e spesso anche una volgarizzazione, di certa musica funky soul. Riprendendo da quest'ultima la tendenza a riproporre un beat ossessivo e ripetitivo, la disco si è basata su uno schema assai monocorde, con una ridondanza, a volte irritante, di strumenti a fiato e di percussioni elettroniche.
Quasi tutti i critici sono concordi nel far risalire le origini della disco al cosiddetto soul psichedelico che si impose nella metà degli anni Sessanta grazie a gruppi come i Temptations. Nella seconda fase della loro carriera e nella terza i Temptations cominciano a prediligere, con l'apporto degli strumenti elettronici, composizioni lunghissime ed ipnotiche che suggestionavano l'ascoltatore ripetendo all'infinito la stessa frase musicale o lo stesso accordo di basso e batteria.
Nonostante le sdegnate reazioni tributate dai cultori del rock alla nascita della disco come fenomeno, avvenuta nella seconda metà degli anni Settanta, che negarono ogni rapporto di parentela tra le due forme musicali, la ritmica disco ha influenzato nel corso degli anni, una miriade di incisioni pop, rock e perfino new wave. Per molti artisti di colore della generazione precedente - Aretha Franklin, James Brown, Millie Jackson, Patti LaBelle, Chaka Khan, Smokey Robinson, Diana Ross... - l'inflessione disco fu una citazione per aggiornare il proprio soul o per correggere con una cadenza nuova il proprio funky. La contaminazione si è spinta oltre i confini dell'immaginabile tra alcuni artisti della Nuova Ondata - come Devo, Talking Heads, Blondie - dove sembrava ci fosse un rifiuto a priori, in forma e contenuto, per le sonorità da discoteca. 

mercoledì 12 ottobre 2016

Bakunin e la libertà

"Non divengo veramente libero se non attraverso la libertà altrui, così che più numerosi sono gli uomini liberi – e più profonda e più ampia è la loro libertà -, più estesa, più profonda e più ampia diviene la mia libertà. Si realizza la libertà illimitata di ognuno per mezzo della libertà di tutti. Confermata dalla libertà di tutti, la mia libertà si estende all’infinito”. (Michail Bakunin) .
Dunque la dimensione positiva della libertà è eminentemente collettiva; il suo ruolo, però, consiste nel potenziare la libertà individuale, non nell’indicare all’uomo le direzioni e il senso ultimo della sua azione, la cui natura rimane irriducibilmente soggettiva e perciò immune da ogni codificazione di senso proveniente da fonte esterna. Di qui una delineazione radicale del rapporto tra libertà individuale e contesto sociale, tra impulso esistenziale ed etica pubblica. Poiché, infatti, “la libertà individuale e collettiva è l’unica creatrice dell’orine umano”, ne deriva che da essa nasce “l’assoluto diritto di ogni uomo o donna adulti di non cercare per le proprie azioni altre conferme che quelle della propria coscienza e della propria ragione, di non determinarle che per mezzo della propria volontà e di esserne quindi, prima di tutto responsabili solo verso se stessi e poi nei confronti della società di cui fanno parte, ma solo in quanto consentono liberamente di farne parte.  


venerdì 7 ottobre 2016

Che cos’è la provocazione?

Per provocazione possiamo considerare l’infrazione di un tabù, superare un limite imposto dal pensare comune, offendere. Potremmo dire che la provocazione è strettamente legata alla cultura di un popolo. Un esempio infelice ma che rende bene l’idea è la pedofilia. Nell’antica Grecia era tollerata, tanto che per un giovane la maturità sessuale avveniva solo dopo un rapporto con un adulto. Oggi invece (sempre per assurdo), se dipingiamo o
fotografiamo “l’atto”, è reato, diventiamo provocatori, a differenza di chi, nella Grecia, ritraeva questi adulti e bambini col chiaro intento di “documentare” questa pratica comune.
Quindi la provocazione, come i valori estetici, vanno di pari passo con gli usi e i costumi di un popolo; la Venere “in carne” del Botticelli, rappresentava l’ideale comune di bellezza del XV secolo, oggi invece, questo ideale ci viene proposto dalla pubblicità, ed è ben diverso da quello rinascimentale.
Provocazione, è ormai la parola d’ordine nell’arte del Novecento, l’opera d’arte non deve più rispettare proporzioni o canoni estetici per imitare la natura, oggi, sembra che l’opera debba principalmente stupire, e per stupire, quasi sempre si ricorre alla provocazione.
Nella grafica pubblicitaria siamo pieni di immagini o testi provocanti, basti solo pensare alle campagne pubblicitarie della Benetton curate da Oliviero Toscani: le sue fotografie a parer mio sono un raro esempio di arte pubblicitaria, ben curate, ma soprattutto efficaci perché colpiscono immediatamente lo spettatore. L’immagine del bacio tra la suora ed il prete, è un ottimo esempio di come la provocazione non è universale: in Giappone, ad esempio, una scena simile non toccherebbe nessuno, questo perché non andremmo a infrangere un tabù della loro cultura, in questo caso, la religione.
Ma il movimento di provocazione per eccellenza è DADA.

Dada è in microbo vergine
Dada è contro la vita cara
Dada società anonima per l’espropriazione delle idee
Dada ha 391 atteggiamenti e differenti colori seguendo il sesso del presidente.
Esso si trasforma, afferma e dice il contrario nel medesimo istante – senza importanza – grida e pesca con la lenza.
Dada è il camaleonte del mutamento rapido e interessato
Dada è contro il futuro. Dada è morto. Dada è idiota. Viva dada. Dada non è una scuola letteraria urla.
(Tristan Tzara)


sabato 1 ottobre 2016

CALLE MAYOR di Juan Antonio Bardem

Isabel, una ragazza da marito che abita nella via principale (Calle Nayor) di una cittadina di provincia spagnola, viene raggirata con una ignobile farsa da un gruppo di vitelloni uno dei quali (Juan) si finge innamorato di lei e le fa credere di volerla sposare. Quando si accorge del raggiro, Isabel decide in un primo tempo, dietro consiglio dell'intellettuale Federigo, di andarsene; in seguito matura la decisione di rimanere in paese.

Il desiderio di andare dalla città ai campi è all'origine di Calle Mayor. Ho sempre pensato che il nostro cinema, per essere veramente nazionale, deve sfuggire al cosmopolitismo della grande città. Sulla strada tra la città e i campi vi è la provincia. La vita in una piccola città di provincia, oggi, un progetto davvero ambizioso. Il soggetto era andato profilandosi meglio: "La storia di una zitella della piccola borghesia in una piccola città di provincia, oggi". A spingermi in questa direzione c'è uno sviluppo di voci confuse, di ricordi, letture, che farei fatica a sciogliere ordinatamente. Ricordo il poema di Foxa: "Sei donne presso il verone, / Sei mogli di mariti ricchi...", e ricordo Lorca e il suo Dona Rosita nubile ambientato nella Granada di principio secolo, e ancora La senorita de Trevelez di Arniches, una storia terribilmente patetica. Per me Calle Mayor è stato il film più difficile. Un mondo, un'atmosfera, un ambiente sono difficili da rendere in termini di luce, immagini o suoni; specialmente se non si può disporre di un narratore che sa tutto e parla fuori campo.Ma questa atmosfera è il tema fondamentale di Calle Mayor. (Juan Antonio Bardem, in "Cinema Nuovo" n.87, 25 luglio 1956)  

Il merito di Calle Mayor è proprio questo di spezzare una lancia arditamente, in favore di una condizione nuova e meno umiliante per la donna e di farlo a rovescio, indicando non come la donna dovrebbe essere, in una società libera, ma come è bene che non sia. Attorno a questa donna spagnola mortificata e indifesa, c'è la Spagna che le somiglia. (Anna Garofalo, in "Cinema Nuovo" n.110, 11 luglio 1957)

venerdì 23 settembre 2016

L’ironia nel blues

L’ironia che domina il blues, il ridere per non piangere, la brava donna che sta male e il senso di speranza nel dolore, strettamente connesso con il senso di dolore nella speranza, impedisce di considerare questa musica musica di protesta. Come musica del sentimento del feeling, un sentimento che va condiviso con altri, il blues è evocazione ed esplorazione di una reazione personale e di carattere emotivo al mondo circostante. Quanto alla rabbia, l’insulto e la protesta sono di per sé reazioni a cose inaccettabili, e il blues può contenere questo atteggiamento, ma di solito con un certo scetticismo riguardo alle conseguenze, ai risultati.

If my captain ask for me,
Tell him Abe Lincoln set us free;
Ain’ no hammer on this road
Gonna kill poor me.

This ol’ hammer
Killed John Henry,
But this hammer
Ain’ gonna kill me.

I’m headin’ for my shack
Whit my shovel on my back,
Altho’ money what I lack,
I’m goin’ home.

(Se il capo mi cerca, / ditegli che Abe Lincoln ci ha liberato / non mi lascerò ammazzare / da un martello su questa strada. / Questo martello / ha ucciso John Henry /ma questo martello / non ucciderà me. / Me ne vado alla mia baracca / con la pala in spalla, / anche senza soldi / me ne vado a casa.) 


sabato 17 settembre 2016

Non c’è che la volontà di vivere

Non c’è che la volontà di vivere. Quelli che osano oggi glorificare il lavoro sono gli stessi che chiudono le imprese per giocarsele in borsa alla roulette delle speculazioni borsistiche. 
Ubbidendo alla logica del profitto a breve termine, il valore d’uso del lavoro cede il passo al suo valore di scambio. Per quanto l’oscurantismo della nostra epoca  e la società dello spettacolo si sforzano di propagare l’istupidimento, l’insensibilità, il servilismo, la legge del più forte e del più furbo, niente potrà impedire al pensiero radicale di avanzare e di minare di nascosto lo spettacolo in cui la miseria esistenziale è elevata a virtù. Non c’è riuscita possibile per le ideologie ammuffite e per le vecchie gomme sgonfie della religione rigonfiate in tutta fretta, rimesse in sesto, gettate in pasto a una disperazione che l’affarismo è bravo a rendere redditizia.
Nel bene e nel male è iniziata la fine dello sfruttamento della natura, la fine del lavoro, dello scambio, della predazione, della separazione da sé stessi, del sacrificio, dei sensi di colpa, della rinuncia al piacere, del feticismo del denaro, del potere, dell’autorità gerarchica, del disprezzo e della paura della donna, della subornazione del bambino, dell’ascendente intellettuale, del dispotismo militare e poliziesco, delle religioni, delle ideologie, della rimozione e dei suoi sfoghi mortiferi.
Non c’è che la volontà di vivere che permetta il predominio dell’essere sull’avere, del godimento sull’appropriazione, della creazione sul lavoro e dall’affinamento dei piaceri sulla redditività delle loro rappresentazioni mercantili.

domenica 11 settembre 2016

Il sotterraneo vellutato di Lou Reed

Suonavamo insieme da molto tempo, in un appartamento da trenta dollari al mese. Non avevamo un centesimo, mangiavamo fiocchi d'avena giorno e notte e facevamo di tutto per procurarci denaro: donavamo sangue, posavamo per quei giornaletti scandalistici che si vendono a 10 o a 15 centesimi. La storia che raccontavano sotto la mia foto diceva che ero un maniaco sessuale omicida, che avevo ucciso 14 bambini e registrato su nastro le loro morti per poi riascoltarlo a mezzanotte in un granaio del Texas. E sotto la foto di John scrissero che aveva ammazzato il suo amante perché stava per sposare sua sorella e lui non voleva che sua sorella sposasse un finocchio.
Poi rimediammo un ingaggio in un caffè. Un posto terribile. Sei concerti a sewra per sette sere alla settimana. Cinque dollari a testa per sera. Ci licenziarono dopo una settimana e mezza. Odiavano follemente la nostra musica.
Finalmente incontrammo Andy. Il nostro è un matrimonio perfetto. Ad esempio, Andy ha fotografato una banana per la copertina del primo album. E' una banana straordinariamente sexy, si può sbucciare (solo nelle prime copie dell'album) e sotto è ancora più sexy-
Nessuno scrive mai cose carine di noi o ci considera seriamente, ma va bene lo stesso. Pubblicheremo tutte le stroncature sulla copertina dell'album. Chiunque faccia l'amore con la nostra musica in sottofondo non ha vera necessità di un partner. Siamo soltanto all'inizio. Se i Velvet Underground faranno un po' di soldi per costruire alcune macchine, non ci sono limiti a quello che potremo fare. 

lunedì 5 settembre 2016

I dannati di Varsavia di Andrzej Wajda

Nel settembre del 1944, quando l'Armata Rossa vittoriosa era ormai vicina, Varsavia insorge contro gli occupanti tedeschi e sopporta una durissima repressione. Alcuni insorti cercano scampo fuggendo nelle fognature della città. Nell'allucinante dedalo dei canali sotterranei, costoro muoiono a uno a uno, suicidi o uccisi dai nazisti.

Forse c'erano delle ragioni specifiche che contribuiscono al successo dei miei film. Per quanto concerne I dannati di Varsavia, è possibile che sia stata una cosa che si vede raramente al cinema: il fatto che l'accanimento umano, l'accanimento nella difesa della vita, può raggiungere proporzioni tali da far si che la gente scenda in fogne puzzolenti, cosa che è già di per se stessa simbolo di qualcosa di atroce. Del resto, l'avvenimento stesso, l'insurrezione di Varsavia, era generalmente noto. E' uno di quegli episodi della storia - strano, paradossale, tragico - che reclama di per se stesso una opera d'arte che lo rappresenti. Mi sembra che esistano nel mondo dei soggetti che richiedono un film. (Andrzej Wajda, in "E'tudes Cinématographiques" n. 69-72, ottobre 1968)

I dannati di Varsavia è un opera originale, matura e sconvolgente, sulla sollevazione di Varsavia nel 1944. Wajda considera questo film la sua realizzazione più completa. Infatti è irripetibile la nebbiolina che si solleva dai liquami della cloaca di Varsavia e a momenti la trasforma in Eden di musica e di amore nel quale i tragici eroi di Wajda si confrontano senza speranze con il proprio destino. (Sveta Lukic, in "Cinema Nuovo" n. 257, febbraio 1979)


lunedì 25 luglio 2016

LA CITTÀ BASTARDA

Le città aumentano di numero e di dimensioni, ma il fenomeno urbano continua a proporsi piuttosto come una rete di relazioni economiche, politiche e umane, con maglie più dense e spazi più radi. Le città contemporanee sono il palcoscenico o il campo di battaglia su cui poteri globali e significati e identità ostinatamente locali si incontrano, si scontrano, lottano e cercano un accordo soddisfacente, o appena sopportabile, una modalità di coabitazione che si spera sia una pace duratura ma che di norma si rivela soltanto un armistizio; brevi pause per riparare le difese danneggiate e dispiegare nuovamente le unità di combattimento. 
La città è il luogo centrale della politica, del mercato, dei flussi di informazione, delle mode e delle tendenze culturali, ma anche il luogo dell’affollamento, del distacco dalla natura, del traffico e dell’inquinamento. Soprattutto è il luogo della folla; è la crescita quantitativa di persone coinvolte da uno stile di vita urbano. I poveri rappresenteranno la maggior parte dei nuovi cittadini. Stili di vita globali si fondono con retaggi di conoscenze locali, producendo nuovi modi di essere, di attribuire un significato alla realtà circostante, ma anche nuove fonti di ansia e di aggressività. Le città sono diventate le discariche di problemi concepiti e partoriti a livello globale. La città non è solo una macchina funzionale che genera e gestisce capitali, informazioni, politica e persone in un mercato globalmente connesso ma anche uno spazio dove si incontrano, scontrano e incrociano saperi e culture. Nella loro crescita vertiginosa, le città, soprattutto quelle di maggiori dimensioni, accolgono più generazioni di migranti, diversi per stato sociale e culturale: la cosmopoli si presenta come un universo multiforme che include ogni forma di diversità culturale ed etnica. Le città è il luogo dell’arricchimento culturale, dello scambio e dell’incontro, ma anche della perdita dei propri legami comunitari e valori tradizionali, del senso di appartenenza al territorio e alla natura: il nuovo cittadino si trova in molti casi a vivere in condizioni disagiate e soffre per l’emarginazione, l’esclusione e lo sradicamento che si traducono, talvolta, in comportamenti violenti e aggressivi. Il modello di vita della città globale, inoltre, è spesso associato all’imposizione di valori e stili di vita occidentali, non sempre condivisi.

(Tatto da ROMANZO IN POLVERE di Gepy Goodtime, edizioni La Paz, Caracas 1977) 

martedì 19 luglio 2016

La tossicodipendenza degli animali

Il locoismo è un fenomeno di  tossicodipendenza degli animali nei confronti di numerose piante. Si tratta di un folto gruppo di specie di erbe selvatiche dei campi (almeno una quarantina) appartenenti soprattutto al genere delle Leguminose, che sono psicoattive per diversi animali. Gli animali sino ad oggi individuati coinvolti nella tossicodipendenza da “erba pazza”, nota come locoismo, sono: mucche, muli, cavalli, pecore, antilopi, maiali, conigli, galline. Una volta che l’animale ha appreso a distinguere l’erba che gli procura l’ebbrezza fra le numerose che ingerisce, diventa un ricercatore e consumatore abituale di quella particolare pianta. Una caratteristica del locoismo risiede nella tenacia con cui gli animali cercano la pianta per loro inebriante. Mentre gli allevatori sradicavano l’“erba pazza” dai pascoli, si sono viste mucche e cavalli rubare i sacchi in cui l’erba era stata raccolta, rovesciando addirittura i carri dove questi sacchi erano stati stipati. I cavalli, in preda ad allucinazioni e attacchi maniacali incontrollabili, dopo aver divorato i fiori e le foglie dell’“erba pazza”, si mettono a scavare per estrarre e mangiare anche la radice. Un dato sorprendente riguarda il fatto che, più gli animali si interessano all’“erba pazza”, più questa si diffonde nel pascolo, sino a diventare la pianta dominante. Decine di pascoli sono stati abbandonati dagli allevatori perché oramai invasi esclusivamente dall’“erba pazza”. Nonostante le misure repressive adottate dagli allevatori (sradicamento dell’“erba pazza” dal pascolo, separazione dei piccoli appena nati dalle madri tossicodipendenti, ecc.) sia la pianta che il comportamento animale di ricercarla e consumarla continuano a esistere e ad essere uno dei più importanti flagelli della zootecnia nordamericana. Molti animali dediti al locoismo muoiono, ancor prima che per la tossicità intrinseca dell’“erba pazza”, a causa dei pesanti digiuni da altri alimenti a cui si sottopongono, così impegnati dall’unico interesse che gli è rimasto su questa terra: cercare il “seme pazzo”.

domenica 10 luglio 2016

BESSIE SMITH

Bessie veniva da una famiglia poverissima di Chattanooga, dove era nata nel 1896 in quello che chiamava una "baracchetta sgangherata", con i cinque fratelli e sorelle che erano sopravissuti. A otto anni era già orfana di entrambi i genitori. Quasi la metà dei 30.000 abitanti di Chattanooga erano neri, e molti senza lavoro. Alle spalle di Bessie, come di ogni donna nera, c’era la condizione di cittadina di seconda classe, la segregazione e la miseria più squallida; nonostante tutto il successo non dimenticò mai la sua identità sociale e la sua provenienza.
Molti considerano un suo disco del 1928 Poor Man’s Blues, uscito prima della grande depressione degli Anni Trenta, uno dei suoi lavori più emozionanti. Molte sue canzoni erano opera di autori professionisti, ma questa era una sua composizione, realizzata con un controllo glaciale e una rabbia lenta e appassionata


Mother rich man, rich man. Open up your heart and mind,
Mother rich man, rich man. Open up your heart and mind,
Give the poor man a chance, help stop these hard, hard times.

While you’re living in your mansion, you don’t know what hard times mean;
While you’re living in your mansion, you don’t know what hard times mean;
Poor working man’s wife in starving; your wife is living like a queen.

Please listen to my pleadin’ , ‘cause I can’t stand these hard time long
Aw, listen to my pleadin’, can’t stand these hard time long
They’ ll make an honest man do things that you know is wrong.

Now the war is over, poor man must live, the same as you,
Now the war is over, poor man must live, the same as you,
If it wasn’t for the poor man, mister rich man, what would you do?

(Signor ricco, ricco, apri il cuore e la mente / Signor ricco, ricco, apri il cuore e la mente / dà un’ occasione al povero, fai finire quei tempi duri. / Tu vivi nel tuo palazzo, non sai cosa vogliono dire i tempi duri / Tu vivi nel tuo palazzo, non sai cosa vogliono dire i tempi duri / la moglie del povero muore di fame, tua moglie se la passa da regina. / Stai a sentire la mia supplica, per favore, perché questi tempi duri non li possono reggere più. / Stai a sentire la mia supplica, per favore, perché questi tempi duri non li possono reggere più. /  Va a finire che un bravo uomo fa delle cose sbagliate sai.
Adesso la guerra è finita, il povero deve vivere come te,  / se non fosse per il povero, signor ricco, come faresti?)  


sabato 2 luglio 2016

L'intendente Sansho di Kenji Mizoguchi

Per aver solidarizzato con i contadini oppressi, il governatore di una provincia del Giappone dell'XI secolo viene destituito ed esiliato. Sei anni dopo, la moglie, il figlio Zushio e la figlia Anju, mentre tentano di raggiungerlo, sono catturati e venduti come schiavi. Passano altri dieci anni. Presso il crudele intendente Sansho, Zushio fa carriera, divenendone il principale aiuto. Poi si ravvede, anche per i rimproveri della sorella e, fattosi riconoscere dalle autorità ufficiali e nominato governatore, arresta l'intendente e decreta la soppressione della schiavitù. Dimissionario, ritrova alla fine la vecchia madre cieca; padre e sorella nel frattempo sono morti.

Oggi come ieri, voglio fare dei film che rappresentino la vita e i costumi di una società data. Ma non si deve, in alcun caso, gettare lo spettatore nella disperazione. Bisognerebbe inventare un nuovo umanesimo che possa apportargli salvezza. Io voglio continuare a esprimere il nuovo, ma non posso abbandonare del tutto l'antico. Conservo un grande attaccamento al passato, mentre non ho che poca speranza nell'avvenire.
(Kenji Mizoguchi, in "Cahiers du Cinéma" n.116, febbraio 1961)

Scompare il falso romanticismo dei film in costume e scompaiono perfino gli scontri alla spada. L'eroe vince perché ha il diritto dalla sua. Mizoguchi insisteva ancora una volta sulla "tradizione umanistica", senza mai rinunciare alla speranza, per quanto cupo potesse apparire il futuro dei due bimbi. Soprattutto eccellente era la fotografia di Kazuo Miyagawa, l'operatopre di RASHOMON, che dava al film una bellezza in netto contrasto con l'orrore apparente del tema.
(Joseph L. Anderson e Donald Richie, "il cinema giapponese", Feltrinelli, Milano 1961)   

lunedì 27 giugno 2016

LA GRATUITÀ

La passione della distruzione ha cessato di essere una passione creatrice, ne è semplicemente un surrogato.
In fondo alla disperazione dove ci hanno trascinato le società industriali, la gratuità comincia a farsi strada. Quando uno sciopero della cassiera libera i clienti dal loro ruolo e li aiuta a prendere e a dare senza contropartita, quando gli operai si mettono a distribuire le merci dei magazzini, quando la gente rifiuta di pagare l’affitto, la luce, i trasporti, quando l’esproprio abbandona la rabbia della disinibizione per giocare alla distribuzione festosa dell’abbondanza, possiamo domandarci se la proletarizzazione, attraverso lo scambio permanente, non trascini con sé anche la sua radicale liquidazione.
Del resto il lasciarsi andare alla gratuità appartiene alla tradizione contadina e operaia.
L’emancipazione dei godimenti porta in sé la gratuità universale di cui perirà la civiltà mercantile.
La felicità non si paga, si strappa alla società che la vende
I rossi mattini sono meno importanti della scintilla che li accende. 

sabato 18 giugno 2016

Il diabete e la marijuana

Gli adulti con una storia di uso di marijuana hanno una minore prevalenza nella comparsa del diabete di tipo 2 e un minor rischio di contrarre la malattia rispetto a quelli che non hanno mai consumato cannabis, secondo i dati degli studi clinici pubblicati sul British Medical Journal.I ricercatori della University of California, Los Angeles, hanno valutato l’associazione tra diabete mellito (DM) e l’uso di marijuana tra gli adulti tra i 20 e i 59 anni in un campione rappresentativo della popolazione degli Stati Uniti di 10.896 adulti. I ricercatori hanno ipotizzato che la prevalenza del diabete di tipo 2 sarebbe ridotto nei consumatori di marijuana causa la presenza di vari cannabinoidi che possiedono proprietà immunomodulanti e anti-infiammatorie.
Lo studio ha riferito che fra i consumatori passati e presenti di cannabis risulta una minore prevalenza di diabete, anche dopo aver corretto il campione con le variabili sociali (etnia, livello di attività fisica, ecc.), nonostante tutti i gruppi fossero in possesso di una simile storia familiare di DM. I ricercatori peraltro non hanno trovato un’associazione tra uso di cannabis e altre malattie croniche, tra cui l’ipertensione, ictus, infarto miocardico, o insufficienza cardiaca rispetto ai non utilizzatori.
I ricercatori hanno concluso: “la nostra analisi degli adulti di età compresa tra 20-59 anni… ha dimostrato che i partecipanti che hanno usato marijuana avevano una minore prevalenza di DM ed una probabilità inferiore di sviluppare DM rispetto ai non-consumatori di marijuana.” Avvertono, però: “gli studi prospettici nei roditori e nell’uomo sono necessari per determinare una potenziale relazione causale tra l’attivazione del recettore dei cannabinoidi e il Diabete Mellito. Fino a quando tali studi non saranno effettuati, non sosteniamo l’uso di marijuana in pazienti a rischio di DM».
Precedenti studi condotti su animali hanno indicato che i cannabinoidi possiedono alcune proprietà anti-diabete. In particolare, uno studio preclinico pubblicato sulla rivista Autoimmunity ha riferito che le iniezioni di 5 mg al giorno del cannabinoide non psicoattivo CBD ha ridotto significativamente l'incidenza del diabete nei topi rispetto al placebo.

giovedì 9 giugno 2016

Dada la poetica del caso


Il Dadaismo è un movimento artistico che nasce in Svizzera, a Zurigo, nel 1916. La situazione storica in cui il movimento ha origine è quello della Prima Guerra Mondiale, con un gruppo di intellettuali europei che si rifugiano in Svizzera per sfuggire alla guerra. Questo gruppo è formato da Hans Arp, Tristan Tzara, Marcel Janco, Richard Huelsenbeck, Hans Richter, e il loro esordio ufficiale viene fissato al 5 febbraio 1916, giorno in cui fu inaugurato il Cabaret Voltaire fondato dal regista teatrale Hugo Ball. Alcuni di loro sono tedeschi, come il pittore e scultore Hans Arp, altri rumeni, come il poeta e scrittore Tristan Tzara o l’architetto Marcel Janco. Il movimento, dopo il suo esordio a Zurigo, si diffonde ben presto in Europa, soprattutto in Germania e quindi a Parigi. Benché il dadaismo sia un movimento ben circoscritto e definito in area europea, vi è la tendenza di far ricadere nel medesimo ambito anche alcune esperienze artistiche che, negli stessi anni, ebbero luogo a New York negli Stati Uniti. L'esperienza dadaista americana nasce dall'incontro di alcune notevoli personalità artistiche: il pittore francese Marcel Duchamp, il pittore e fotografo americano Man Ray, il pittore franco-spagnolo Francis Picabia e il gallerista americano Alfred Stieglitz.
La poetica del caso rifiuta ogni atteggiamento razionale, e per poter continuare a produrre opere d’arte si affida ad un meccanismo ben preciso: la casualità. Il caso, in seguito, troverà diverse applicazioni in arte: lo useranno sia i surrealisti, per far emergere l’inconscio umano, sia gli espressionisti astratti, per giungere a nuove rappresentazioni del caos, come farà Jackson Polloch con l’action painting. Tutto può essere opera d’arte se è firmato ed esposto in mostra … In un suo scritto, il poeta Tristan Tzara descrive il modo dadaista di produrre una poesia. "Per fare un poema dadaistaPrendete un giornale. Prendete delle forbici. Scegliete nel giornale un articolo che abbia la lunghezza che contate di dare al vostro poema. Ritagliate l’articolo. Ritagliate quindi con cura ognuna delle parole che formano questo articolo e mettetele in un sacco. Agitate piano. Tirate fuori quindi ogni ritaglio, uno dopo l’altro, disponendoli nell’ordine in cui hanno lasciato il sacco. Copiate coscienziosamente. Il poema vi assomiglierà. Ed eccovi uno scrittore infinitamente originale e d’una sensibilità affascinante, sebbene incompresa dall’uomo della strada".

venerdì 3 giugno 2016

FRONTE DEL PORTO di Elia Kazan

Un sindacato controllato da una banda di gangster sfrutta gli scaricatori del porto di New York. Uno di questi, Terry Malloy, anch’egli abituato a sopportare soprusi e violenze, decide di ribellarsi ai malviventi (che gli hanno ucciso il fratello) dopo avere imparato sani principi morali da un prete e da Eddie, la ragazza che ama. Terry rivela a una commissione d’inchiesta i loschi affari del sindacato e viene quasi ucciso dai gangster, ma la sua lotta è un esempio per tutti gli scaricatori.

È il contenuto del film e non i mezzi tecnici che stanno dietro ad esso che rendono il film bello o brutto. In definitiva, infatti, che cosa è che conta di più nel cinema: il colore, l’illuminazione, la levigatezza delle immagini?n A me pare piuttosto che la cosa più importante sia il contenuto del film. 
(Elia Kazan, in “Cinema Nuovo” n. 113, 01 settembre 1957)
Il film di Kazan Fronte del porto è un buon esempio di mistificazione. Il proletariato è costituito da un gruppo di essere fiacchi, piegati sotto il giogo di cui si rendono ben conto senza aver tuttavia il coraggio di scuoterlo; lo Stato (capitalista) si confonde con la Giustizia assoluta, è il solo possibile ricorso contro il crimine e lo sfruttamento: l’operaio, se giunge fino allo Stato, fino alla sua polizia e alle sue commissioni d’inchiesta è salvo. Quanto alla Chiesa, sotto le apparenze di un modernissimo gigione, essa è soltanto una potenza mediatrice tra la miseria costitutiva dell’operaio e il potere paterno dello Stato-padrone. D’altra parte, alla fine, tutto questo leggero prurito di giustizia e di coscienza si calma molto rapidamente, si risolve nella grande stabilità di un ordine benefico dove gli operai lavorano, i padroni stanno a braccia conserte, e i preti benedicono gli uni e gli altri nelle loro giuste funzioni.
(Roland Barthes,” Miti d’oggi”, Lerici, Milano 1962)   

martedì 24 maggio 2016

L’esigenza amorosa

Come insegnano ormai i bambini, il piacere di vivere non deve più affermarsi pagando un tributo alla retorica della sua sconfitta. A dispetto delle antiche oppressioni, l’amore di sé, quale lo scoprono l’infanzia e la nuova coscienza degli amanti irradia da una potenza di cui la potenza industriale, perfettamente concentrata nell’irradiazione nucleare, sarà stata il mortale surrogato. È il motivo per cui io considero l’esigenza amorosa di essere tutto, in ogni tempo e ovunque, come l’unica alternativa alla società mercantile.
O l’economia porterà a compimento la perdizione del vivente, o la società si fonderà sulla predominanza dei desideri affrancati dall’universo mercantile. O noi periremo nella stupidità crescente del profitto e del prestigio promozionale, o il primato del godimento porterà alla rovina il lavoro attraverso la creatività, lo scambio mediante il dono, il senso di colpa tramite l’innocenza, la volontà di potenza grazie alla volontà di vivere, gli appagamenti angosciati per mezzo del ritmo naturale del piacere e del dispiacere.
Una scommessa aperta. Tra la tendenza ad abbandonare il meglio per il peggio, e la trasmutazione dell’Es individuale. Tra il disprezzo di sé, questa virtù di cui si onora lo schiavo, di rimettersi ad una guida – politico, prete, medico, psicanalista, pensatore, istituzione, governo -, e un’arte di godere, pazientemente decantata dalle impregnazioni della morte.
Il movimento del Libero Spirito ha posto la domanda nel momento storico in cui il processo mercantile iniziava la sua accelerazione. La fine del XX secolo sentirà la risposta nell’esplosione finale della macchina per snocciolare l’individuo. Ma nelle parole pericolosamente strappate al linguaggio di Dio, e nelle parole trascinate, ai nostri giorni, nella derisione di una sopravvivenza insignificante e di una vita che non ha un senso riconosciuto, è lo stesso ciclone del godimento che, con la sua violenza intemporale, spazza la storia. La ricerca di un amore da inventare nella pura materia dell’umano fonda la misura universale di una società radicalmente nuova.

martedì 17 maggio 2016

Alexander Skrjabin

Nato da una famiglia aristocratica, all'età di un anno perse la madre, una pianista, morta di tubercolosi.
Alexander Skrjabin  è stato un visionario spesso ai limiti dell'allucinazione, completamente affascinato da esoterismo e teosofia. Per comprendere la portata della sua geniale fantasia, basta osservare la prima stesura del testo poetico e i molti schizzi preparatori che il musicista russo ha lasciato alla morte per Misterium, un'opera che avrebbe dovuto essere eseguita in un tempio emisferico sull'Himalaya per celebrare "la nascita di un nuovo mondo", con una grandiosa sintesi religiosa di tutte le arti: suoni, danze, luci, profumi, colore e poesia.
Una teoria sostenuta da questo stesso autore poneva in stretta relazione i colori alle note musicali: lui stesso suonava addirittura su una tastiera per luci con i tasti opportunamente colorati di tinte diverse, intrecciando melodie al di fuori del senso comune, lasciandosi trascinare da questo o quel colore e non dalla nota in sé. 
L'amalgama di colori, texture e suoni che nelle sue composizioni attirano o allontanano l'ascoltatore è quello che lui stesso e la sua musica lo distinguono dagli altri: il suo DNA rinchiuso in quegli accordi atonali tonica-dominante che annullano la dicotomia modale maggiore-minore. La musica di Skrjabin conteneva estasi. Egli sosteneva che la fine del mondo sarebbe stata una orgia universale, voleva unire tutta l'umanità attraverso queste composizioni, una orgia di colori e suoni la Omni-Art, voleva eseguire un progetto multimediale sulle cime dell'Himalaya di sette giorni chiamata Mysterium. 
Nelle sue composizioni riesce a  far emergere la disordinata energia creatrice di un genio in perpetua agitazione, e che può passare da pagine di grottesca schizofrenia contrappuntistica (ad esempio la Nona sonata) a malinconiche evocazioni di paesaggi gotici che possono nascondere persino un castello medievale (la Terza sonata). 
Era una persona con diverse visioni del mondo ed è stato considerato uno dei principali compositori simbolisti russi a causa delle sue armonie insolite.
 Era un musicista mistico con influenze spirituali, sviluppò strutture musicali originali e armonie inusuali all'epoca. Skrjabin era tra i compositori più innovativi e più controversi del suo tempo, tra follia e genialità, la sua intera fisionomia spirituale e coscienza era condizionata dal satanismo, voleva portare gli elementi diabolici alla luce del giorno per sottoporli alle leggi della bellezza e della proporzione.
Nel 1915 si ammalò a causa di una puntura d'insetto sul labbro superiore sotto i baffi. Per ovvie ragioni dell'epoca, i medici operarono con diverse incisioni, causandogli una infezione da streptococco stafilococco, avvelenamento del sangue. Si spense il 27 aprile 1915 all'età di 43 anni di setticemia.