lunedì 28 maggio 2018

La rivoluzione per Emile Armand

La rivoluzione per Emile Armand va intesa come una globale rivoluzione di coscienza, un salto di qualità esistenziale, un modo radicalmente personale di rapportarsi al mondo fisico e sociale. Questa rivoluzione, che coinvolge integralmente l’individuo, non ammette perciò scissioni fra privato e pubblico, fra vita personale e sociale, anche se in tutto questo, beninteso, non vi è assolutamente nulla che possa ricordare l’ideologia marxiana della trasparenza e dell’identificazione del singolo con la collettività. Anzi, qui è più che mai esaltata la dimensione completamente individualistica perché a volere tale coerenza è soltanto l’individuo, che decide, se così si può dire, volta per volta, momento per momento, senza mai rendere conto a nessuno.
Nell’individualismo proposto da Armand non vi è assolutamente spazio per la rivoluzione intesa nel senso tradizionale del termine. La sua rivoluzione, in realtà, è una rivolta e in questo somiglia moltissimo a quella stirneriana, cioè un atto esistenziale che sta quasi contrapposto al rivolgimento politico-sociale. Egli pensa che la rivoluzione, come la guerra, scateni inutilmente la violenza e il desiderio di dominio gli uni sugli altri e che perciò non possa portare un vero miglioramento nella vita dell’individuo. Addirittura la storia insegna che le rivoluzioni sono sempre state seguite da sbalzi indietro che le han fatte deviare dal loro obiettivo primitivo. 

giovedì 24 maggio 2018

Noi rifiutiamo di stare al gioco MAGGIO 1968

Roma, Berlino, Varsavia, Parigi. E' chiaro, gli studenti si alzano tardi e sono coraggiosi. Ma questo non spiega tutto, soprattutto non spiega perché gli studenti insorgono e trascinano con sé molti professori. Noi respingiamo questa società di repressione. Noi non abbiamo voglia di far funzionare meglio questa università obbligata, oggi, a formare non solo i capi, ma anche i capetti e i piantoni necessari alle moderne società capitaliste: da qui d'altronde nasce una circostanza di cui profittiamo: il gran numero di studenti e l'importanza per tutta la società del problema dell'università.
 L'università è veramente universale solo per l'organizzazione esplicita o implicita, della repressione. Quali mezzi sono dati agli studenti per modificare gli dcopi degli insegnamenti e il modo in cui si sviluppano le scienze "esatte" o "umane"? Nessuno, certo perché questa società in cui ogni volta che si consuma si è un po' meglio venduti, è una società in cui non si ha scelta, si ha solo il diretto di essere diretti: a scuola, in fabbrica, nei partiti, nelle elezioni. Quando non c'è lavoro per i giovani, è l'esercito che fa le assunzioni.
Il gioco politico in cui paternalisticamente ci aspetterebbe uno strapuntino è solo il riflesso di questa situazione. Mai vi si esprime il rifiuto. Tutte le forze politiche hanno accettato una costituzione che regola una organizzazione poliziesca della nazione diretta a partire da un palazzotto del secondo impero. A questo gioco noi rifiutiamo uno strapuntino, e siamo chiari: rifiutiamo anche le poltrone...
(Editoriale tratto da ACTION n° 2 13 maggio 1968)

lunedì 14 maggio 2018

STAND UP Jethro Tull

La storia dei Jethro Tull è strettamente legata a quella del suo istrionico cantante, Ian Anderson: in scena dal 1963 dapprima coi Blades, poi con i John Evan Smash nell’Inghilterra settentrionale, nel 1967 il folle flautista formò i Jethro Tull (dal nome dell’agronomo inglese che inventò la seminatrice meccanica) con il chitarrista Mick Abraham, il bassista Glenn Cornick ed il batterista Clive Bunker. Il gruppo fece subito scalpore per l’eccentricità del suo leader: barba e capelli incolti, scarpe da tennis rotte ed un flauto quasi strappato barbaramente dalle mani di Rahsaan Roland Kirk; con questa formazione i Jethro Tull entrarono subito in classifica con il primogenito This Was (Island, 1968), un album all’insegna del crossover tra blues, folk e jazz, rivisitati in modo molto personale. 
Il nome dei Jethro Tull e lo stesso di un agronomo inglese del XVIII secolo. Il gruppo si impone subito per un originale folk rock blues progressive, caratterizzato dal flauto traverso di Ian Anders. Lo strumento nuovo per il rock, e Anderson lo usa in maniera assai spettacolare, l’icona del gruppo diventerà la silhouette di Anderson che suona il flauto su una gamba sola.
Alla fine dello stesso anno di This Was, Mick Abraham lascia i Jethro Tull per formare i Blodwyn Pig. Dopo aver vagliato chitarristi come Toni Iommi degli Earth, futuri Black Sabbath e Dave O’List dei Nice, a convincere tutti è Martin Lancelot Barre. Il nuovo disco Stand Up esce nell’agosto del 1969. Ottima la copertina con il disegno ligneo di Jimmy Grashow e dal “pop up” con la sagoma del gruppo che salta dalla “gatefold sleeve”,
La distorta A New Day Yesterday apre le danze con un blues pesante, caratterizzato da chitarra, armonica e flauto che danno vita ad una atmosfera alla Cream con il suo giro ipnotico di basso. 
In Jeffrey Goes To Leicester Square entra in gioco anche il mandolino, dando alla canzone un taglio folk popolare, tra chitarra elettrica ed effetti "Leslie", flauti e piccoli tamburi, si riferisce a Jeffrey Hammond, amico di Anderson che, due anni più tardi, diverrà il secondo bassista della band.
Il pezzo forte è Bourée, con cui ancora una volta il nuovo rock inglese si accosta a Bach: è un rifacimento per flauto della "Bourrée" una danza tratta dalla Suite per liuto in Mi minore BWV 996, rispettoso del tempo ma diverso nella tonalità d’impianto (Re minore) e nello svolgimento colorato di jazz. Rifacendosi un po’ alle sonorità dei Pentangle Anderson rielabora la melodia della Suite in un’accattivante jazz-blues, lasciando un rilevante spazio al basso di Cornick.
La voce di Anderson si alza su Back To The Family canzone urbana, seguita dalla fragile Look Into The Sun dal sapore popolare, speziato dal flauto dolce e dalla chitarra acustica, 
La seconda facciata del LP si apre con Nothing Is Easy il brano più lungo dell’album con sonorità  psichedeliche blues degli inizi.
L’esotica Fat Man dai toni orientali da incantatore di serpenti sviluppati dal sitar e con una grandiosa ritmica ai bonghi, la raffinata We Used To Know (a detta di molti il brano fornirà il giro di accordi per “Hotel California” degli Eagles) è un brano un po’ più cupo rispetto al resto dell’album, con Barre in evidenza, tra effetti "wah-wah" e meravigliosi assoli. 
La dolce Reasons For Waiting quasi una pastorale, una canzone di una dolcezza incredibile, dove l’orchestra aggiunge un tocco classico che concentra l’attenzione sulle arrangiamenti degli archi, coprendo tutti gli altri strumenti.
Chiude l’album For a thousand Mothers punteggiata da incredibili assoli al flauto di Anderson.

mercoledì 9 maggio 2018

I DANNATI DELLA TERRA di Valentino Orsini

Un giovane regista africano, Abramo Malonga, lascia, alla sua morte, il suo primo e ultimo film, incompiuto, in eredità al regista italiano Fausto Morelli. Dopo varie perplessità e dopo una lunga crisi, dovuta anche a motivi personali, Fausto, aiutato dalla vedova dell'amico africano, riprende il film di Abramo e lo porta a termine.

Ho riscoperto ad un altro livello, ben più complesso, quello che anni fa chiamavo "il sentimento tragico della vita". Con questa variante, però. Non vedendo più nel rapporto uomo-natura, o in quello uomo-esistenza, bensì nel rapporto dell'uomo con la propria storia. Si vive nella tragedia perché, come dice giustamente Sartre, si è "vittime e carnefici" al tempo stesso. Vittime in quanto subiamo il potere altrui senza contestarlo; carnefici in quanto permettiamo al potere di esercitare violenza nei confronti dei nostri simili. La tragedia così si ha non per azione, ma per mancanza della nostra azione. Il film parte da qui, e su questi temi tenta di articolare un discorso. La coscienza dello scacco storico, della crisi, la volontà di trovare una via di uscita. Non proponendo, naturalmente, di andare a rinsanguare le file dei movimenti rivoluzionari in atto, ma di vedere, analizzare, capire quale deve essere la battaglia che ogni uomo, ogni gruppo, ogni partito rivoluzionario debbono sostenere nell'ambito del proprio paese e pertanto nella propria storia specifica. La coscienza che il linguaggio, questo "dio affogato nel nostro sangue", fa parte di un patrimonio che riceviamo da una cultura non nostra, deve renderci vigili, perché il linguaggio ha la forza di reintegrare ogni nostra attitudine di contestazione al sistema
(Valentino Orsini, in "Cinema Nuovo" n° 189, settembre ottobre 1967)

L'alternativa violenza-nonviolenza è una alternativa borghese, non rivoluzionaria. La borghesia combatte e rifiuta la violenza solo quando questa pone in questione il sistema. Per queste ragioni noi poniamo l'accento sull'immagine celebrativa della violenza. Abbiamo cercato di rappresentare il gesto della violenza, l'attimo in cui la esercita la esegue su chi la subisce, demistificandolo. Decodificando i segni borghesi della violenza (tortura, sangue, morte natura insomma), cercheremo di mostrare come la violenza "manifesta" sia una semplice conseguenza di quella "nascosta", la cui logica è invece tutta racchiusa nel capitalismo.
(Alberto Filippi, in "Cinema Nuovo", n° 191, gennaio febbraio 1968)