martedì 28 giugno 2022

IL CAMERATA di Jean Cocteau

Quel pugno di marmo era palla di neve,

e gli stellò il cuore,

stellò la blusa del vincitore,

stellò il vincitore nero che niente protegge.


Rimase stupefatto, in piedi,

nella garitta della sua solitudine,

gambe nude sotto il vischio, le noci d’oro, l’alloro,

stellato come la nera lavagna di scuola.


Così partono dal collegio sovente

i pugni che fanno sputare il sangue,

i pugni duri delle palle di neve,

che la bellezza dà, passando, al cuore.


mercoledì 22 giugno 2022

I LUOGHI DEL ROCK

Quando il rock'n'roll impose la sua legge in gran parte del mondo   occidentale, furono in pochi a pensare che questa musica, tanto differente proprio per la sua natura generazionale, avrebbe portato con sé una straordinaria serie di novità. Il Nuovo Suono era innanzitutto figlio di un'innovazione tecnologica senza precedenti. La diffusione a largo raggio del 45 giri rendeva universale il suo messaggio e la recente proliferazione dei mezzi  di comunicazione visiva (la televisione, soprattutto) ne diffondeva ovunque l'immagine. Negli anni Cinquanta cultura giovanile e media erano interdipendenti. Ma con il rock'n'roll cambiarono anche i luoghi della musica. Il ritorno in grande stile dei juke-box, che avevano vissuto un primo momento di gloria all'epoca del big band, dal 1937 al 1948, provocò il rapido successo degli espresso-bar. Nati su iniziativa degli emigrati italiani, divennero nella seconda meta degli anni Cinquanta il punto di ritrovo dell'americano medio. Si poteva stare in piedi, appoggiati al muro,   o ballare nella semioscurità, condizione necessaria anche se non sempre sufficiente per discreti approcci con l'altro sesso. Fu questo, più che il gusto inedito ed economico di caffè e cappuccino, il motivo del grande successo degli espresso-bar. Al  punto che alcuni religiosi aprirono locali sullo stesso stile per predicarvi il Vangelo. «I rocker hanno insegnato agli americani come spremere da una sola libbra di caffè ottanta tazzine», scrisse un giornalista inglese. Ma nemmeno l'Inghilterra si salvò dal   fenomeno: il primo bar, il Coffee Cup, apri ad Hampstead nel 1957. Fu reso celebre da periodiche frequentazioni di Tommy Steele; un anno dopo i bar erano più di tremila. Erano garage, stanzette, vecchi padiglioni o stazioni di servizio rimesse a nuovo e adattate alla circostanza. Due erano gli oggetti immancabili: la macchina italiana per espresso e il juke-box. Il primo ad associare l'idea della riproduzione musicale a quella della macchina automatica funzionante a moneta fu Thomas Alva Edison, l'inventore della prima macchina capace di riprodurre dei suoni. Il suo fonografo a rulli di cera,
lungi dall'essere utilizzato come elettrodomestico per uso familiare, era destinato, fra i tanti progetti, a trasformarsi nel mezzo di diffusione per le «biblioteche  musicali». La prima fu inaugurata a Parigi, nel 1897, dalla Pathé. Una lunga fila di poltroncine di velluto con davanti dei pannelli di legno, una fessura per le monete e una specie di interfono, dentro al quale il cliente pronunciava il nome della romanza prescelta. L'automatismo era apparente; dietro ai pannelli si muoveva una quarantina di inservienti che caricavano il cilindro nel fonografo (la scelta era tra 1.500 cilindri) e raccoglievano i soldi. Dall'altra parte, l'ignaro ascoltatore si toglieva la tuba, calzava la piccola cuffia e si lanciava in quei suoni gracchianti e miracolosi. Il successo di questi saloni nelle città europee (a Milano c'era il Bar  Automatico) e, specialmente, in quelle americane, convinse le nascenti industrie fonografiche ad approfondire la ricerca di un meccanismo automatico che soddisfacesse le richieste del mercato. La diffusione dei locali atti all'ascolto fu improvvisa e travolgente: si istituirono società che appaltavano le macchine e provvedevano a veloci sostituzioni dei cilindri. Ma il fonografo era viziato da notevoli difetti e la diffusione, nei primi anni del Novecento, del grammofono a dischi fini inevitabilmente con l'affossare le macchine a moneta. La rinascita avvenne grazie al mezzo che, invece, sembrava dover dare il colpo di grazia: la radio. Senza la possibilità di inserirsi nella programmazione destinata ai bianchi, con i race records banditi quasi ovunque, i neri si radunavano nei juke joints ai margini delle città, locali a metà strada tra il bar e il postribolo, per ascoltare da scalcinati grammofoni la loro musica. Fu per questo povero, ma appassionato pubblico che, nel 1928, fu progettato il juke-box. Si  chiamava Audiophone, fu inventato probabilmente da Justus Seeburg, uno svedese, e permetteva la selezione di otto dischi ascoltabili su una sola facciata. Ma il vero padre del juke-box, colui che ne  decretò l'enorme e rapida diffusione, fu Homer Capehart, alla guida del leggendario Wurlitzer, ancora oggi icona degli appassionati di rock'n'roll. Fu lui a sfruttare per primo il matrimonio tra macchina e musica: dietro l'espansione dei dischi a piccolo formato e l'esplosione del juke-box il rock'n'roll rivelò l'inedita fisionomia della musica riprodotta più che eseguita. Ma la partecipazione non era minore; anzi, il jivin', quello che oggi  chiamato rock'n'roll figurato, rappresentava, con le sue acrobazie  e il suo entusiasmo, un esempio di adesione totale al ritmo che si ascoltava. Così, i juke-box divennero l'anello fondamentale della catena ascolto-ballo. Rinnovati nell'aspetto — Seeburg aveva lanciato con incredibile fortuna un modello in cui tutta la meccanica era visibile nei suoi movimenti dall'esterno —, ristrutturati nella forma grazie all'uso dei dischi a piccolo formato, incrementati nella tecnica (ora si potevano selezionare più di cento brani), gli eredi del fonografo a moneta conquistarono gli Stati Uniti. Non c'era artista che non posasse per qualche foto pubblicitaria accanto all'ultimo modello della Ami o della Wurlitzer; i più accaniti se ne fecero installare uno in casa, accanto al grammofono. E il juke-box arrivò finalmente, via Inghilterra, in Italia. «È un mercato enorme, tutto da scoprire», scrive «Musica e dischi» nel 1956; poche pagine dopo ecco la pubblicità dei primi dischi di Elvis; in qualche giorno sarebbe arrivato il flipper. L'America, ora, era davvero a portata di mano.



martedì 14 giugno 2022

PHILISTIA

Paese prossimo al POIC-TESME. La capitale è Novogath. Un'unica legge  governa Philistia: ciascuno deve fare ciò che ci si aspetta da lui. Così, poiché i Philistini si aspettano che le donne e i sacerdoti si comportino in maniera imprevedibile, questi due gruppi fanno assolutamente tutto ciò che vogliono, e gli uomini del paese sono loro sottomessi. Il che spiega perché Philistia è sempre stata retta da una regina. I Philistini venerano tre dèi principali: Sesphara, Ageus e Vel Tyno. Quest'ultimo predilige il grigio: "Ogni altro colore", dice il suo motto, "è da considerarsi abominevole, finché io non muti parere". A Philistia i bambini vengono portati dalle cicogne, invocate allo scopo secondo un rito usuale alle streghe della Tessaglia. Anzitutto si pronuncia una  lunga formula in latino, si tracciano sul pavimento due linee col gesso, e si pongono cinque stelle nere in un cerchio. Poi il marito cammina su una delle due linee, fa un cenno a sua moglie affinché lo raggiunga, e la bacia. Allora appare la cicogna, che riceve l'ordinazione del figlio. I Philistini non comprendono assolutamente qualsiasi riferimento ad altre tecniche per ottenere bambini. Una piccola setta, tuttavia, diffonde la credenza che i neonati si trovino sotto i cavoli. La regina di Philistia è convinta che la poesia sia popolare tra i suoi sudditi, benché essa stessa non ne abbia mai letta una riga. In realtà la sua opinione non è fondata: i Philistini ritengono per lo più che la letteratura sia sinonimo di noia. Degli unici tre scrittori esistiti nel paese due furono esiliati e il terzo fu spaventato abbastanza perché se ne andasse da solo. Tra la fauna locale segnaleremo il tumblebug, insetto maleodorante ma rispettato, il quale afferma che le persone ancora in vita sono aggressive, lascive e oscene, e parla bene solo dei morti. (James Branch Cabell, Figures of Earth. A Comedy of Appearances, New York, 1921; Jurgen. A Comedy of Justice, New York, 1919)

 

martedì 7 giugno 2022

IO LA CONOSCEVO BENE - Antonio Pietrangeli

Adriana, una ragazza del Pistoiese, lascia la famiglia e la provincia per trasferirsi a Roma in cerca di fortuna. Dopo essersi sistemata in un piccolo appartamento di fronte al Gazometro, comincia a passare da un impiego all'altro: domestica, parrucchiera, maschera in un cinema, cassiera in un bowling. Conosce vari uomini: Dario, un ladruncolo che le fa passare una notte in un albergo e al mattino fugge lasciando il conto in sospeso; Carlo, un bel ragazzo della borghesia romana di cui si invaghisce, ma che è  innamorato di un'altra; poi uno scrittore e infine il garagista del suo stabile, con cui ha un'avventura notturna. Nel frattempo Adriana, piena di speranza, affida il poco denaro guadagnato a un ambiguo agente che le prospetta la possibilità di lavorare nel cinema. Le uniche cose che riesce a fare sono partecipare come comparsa in un film mitologico, presentare qualche vestito in teatrini di provincia e apparire in un cinegiornale (fa un provino con il massimo della serietà e ne risulta uno sketch ridicolo). Rimasta incinta, senza neanche sapere chi sia il padre, Adriana si vede costretta ad abortire. Torna nel Pistoiese a visitare la famiglia e scopre che la sorellina minore, Stefanella, è morta in seguito a una malattia. Di nuovo a Roma, Adriana scivola da una festa all'altra, circondata da uno stuolo di dubbi corteggiatori. Una sera va in un night, balla, si ubriaca e passa la notte a gironzolare con uno sconosciuto, a bordo di una  Fiat 500. All'alba torna nel suo appartamento, mette un nuovo disco, si sfila la parrucca e si butta dalla finestra. 
«Nella primavera del 1961 avvicinai decine di ragazze che giravano attorno al mondo dello spettacolo, il sottobosco delle attricette, modelle e simili. E condussi una vera e propria inchiesta da sociologo, con tanto di schede e di indagini parallele. Naturalmente queste ragazze erano vive, vegete e magari anche soddisfatte. Tutte esistenze sorprendentemente uguali e tutte ugualmente miserevoli anche se le ragazze che me ne parlavano non se ne rendevano affatto conto. Da quell’inchiesta nacque, con la prepotente evidenza della verità, il personaggio di Adriana Astarelli». Antonio Pietrangeli ha debuttato come critico cinematografico su riviste come «Cinema», «Bianco & Nero», «Si gira» e «Star». In seguito ha partecipato alla sceneggiatura di molte pellicole, tra cui Gioventù perduta di Pietro Germi ed Europa ’51 di Roberto Rossellini. Ha esordito dietro la macchina da presa con Il sole negli occhi (1953), film in cui emerge l’interesse per la psicologia femminile che caratterizzerà molti suoi film, come Nata di marzo (1957) e Adua e le compagne (1960). Nel 1961 ha diretto Fantasmi a Roma, l’anno seguente Il magnifico cornuto (con protagonista Ugo Tognazzi) e nel 1965 Io la conoscevo bene, vincitore di tre Nastri d’argento nel 1966. Due anni dopo, Pietrangeli è annegato durante le riprese di Come, quando e perché, uscito postumo nel 1969.