martedì 31 maggio 2022

LE ORIGINI DEL TEATRO LATINO

Secondo lo storiografo Tito Livio, la nascita della letteratura latina risale attorno al 240 a.C.: in quello stesso anno Livio Andronico mise in scena una propria opera, probabilmente una tragedia, su un solo soggetto e con una separazione tra le parti cantate e dialogate (richiama la struttura tradizionale del dramma greco). Non si sa cosa rappresentò e della produzione teatrale di questo periodo resta molto poco per farsi un’idea di cosa fu la tragedia latina dell’età repubblicana (la documentazione si fonda su frammenti). Dai principali tragediografi si ricava qualche indizio per supporre la presenza del coro, il cui ruolo era sicuramente diverso dal teatro greco. Si sono conservate opere superstiti di Plauto, di Terenzio, tutte commedie di ambientazione greca; per quanto riguarda le commedie di ambientazione romana restano frammenti di Titinio e Afranio (II-I secolo a.C.). Il materiale superstite permette di osservare un’assenza totale del coto nel teatro comico latino, sul piano stilistico e performativo si assiste ad una trasformazione di svariati momenti originariamente destinati alla recitazione in canti: tensione stilistica evidente nel caso del teatro plautino, il meno grecizzante e il più spettacolare, in cui l’attore è un professionista a tutti gli effetti, abile nel canto e nella danza. Il poeta drammatico arcaico non praticava un solo genere; caratteristiche che accomunano il teatro latino agli spettacoli ellenistici sono: la rilevanza dell’attore protagonista, le evoluzioni della danza e canore, la tendenza all’antologizzazione dei testi nella riproposizione spettacolare, l’attenzione alla musica e al canto solista.


lunedì 23 maggio 2022

ATLANTIC RECORDS - Ahmet Ertegun

Nel 1947, insieme a Lionel Hampton e Max Silverman, che mandava avanti il Quality Music Shop sulla Settima Strada, vagabondavo da un locale all'altro, fino a tarda notte. Hampton   aveva un'idea fissa: fondare una casa discografica. Era una proposta affascinante, ma a me interessavano soltanto il jazz e il blues. E più tempo trascorrevo nel negozio di Silverman più mi rendevo conto che la gente non apprezzava più il primo jazz; ciò che voleva era il suono dolce, moderno e pseudo-jazz di Don Byas e Erroll Garner, artisti validi, ma orientati verso il pop. Così, quando incorporammo l'Atlantic nell'ottobre del 1947, decidemmo di produrre un sound che inglobasse le lezioni del jazz e del blues, ma che potesse diventare la musica nuova dei nuovi adolescenti. I nostri uffici, se vogliamo definirli in questo modo visto che erano due stanze al Jefferson Hotel, si trovavano a Broadway, sulla Cinquantaseiesima. Da lì a poco ci saremmo espansi fino a conquistare il mondo. Con la musica nera. All'inizio era molto difficile mettere sotto contratto grandi cantanti, così cominciammo dai grandi musicisti: Joe Morris, Johnny Griffin, Matthew Gee, PhiIly Joe Jones, Percy Heath, Elmo Hope, che più tardi sarebbe stato rimpiazzato da Ray Charles. Il primo hit fu Drinking Wine, Spo-Dee-O-Dee, che vendette quasi quattrocentomila copie e ci fece capire che il blues era un mercato  aperto. Con immensa fortuna mettemmo sotto
contratto Ruth Brown. La  prima volta che la vidi mi lasciò senza fiato. Dopo un paio di canzoni alla Doris Day senza infamia e senza lode, attaccò So Long. La feci firmare immediatamente. Non riuscii a convincere Little Miss Cornshucks, invece. Era un vero talento. Si presentava sul palco a piedi nudi e con un cestino in mano, per dimostrare che veniva dal niente, dalle acque fangose. Ma la Atlantic era ancora un'etichetta sconosciuta e lei non volle firmare. Peccato per noi, perché aveva la forza di una Dinah Washington, ma peccato anche per lei perché non ottenne mai un contratto. E  poi vennero LaVern Baker, Big Joe Turner e Ray Charles.  E con loro il successo. La   fondazione. Abbiamo creato da pochi anni la «Rhythm and Blues Foundation», ideata da un gruppo di persone di Washington, ma quasi interamente finanziata dalla Atlantic. Ogni anno la Fondazione assegna riconoscimenti e somme in denaro a chi ha contribuito a diffondere la nostra musica nel mondo. Ci sentiamo debitori nei confronti dei grandi artisti degli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta che hanno gettato i semi di quello che poi si sarebbe chiamato rhythm and blues e rock'n'roll. Sono stati dei pionieri e, per un motivo o per l'altro, non hanno ottenuto quei riconoscimenti, in fama e denaro, che avrebbero meritato. Alcuni di loro vivono pressoché in miseria
e senza assistenza. È nostro dovere restituire in altra forma quello che ci hanno dato da giovani. C'era un luogo, a New York, divenuto poi leggendario, che era  meta continua degli artisti stranieri e ritrovo sicuro per gli americani. Era l'Apollo Theatre, il posto dove tutti potevano vedere la musica che avevano sempre sentito. Quando Beatles e Stones vollero ripercorrere a ritroso la strada delle loro influenze, si fermarono all'Apollo. Era un locale magico: chiunque salisse sul palco, era per il pubblico un'esperienza indimenticabile. Era un posto dove si respirava il blues, l'espressione dello spirito della gente di colore, la Mecca della buona musica. Fu proprio all'Apollo che vidi per la prima volta Clyde McPhatter. Suonava ancora con i Dominoes. Caddi letteralmente dalla sedia, al termine della prima canzone. Aveva una voce angelica, con un splendida inflessione gospel. Un anno più tardi venni a sapere che era stato allontanato dal gruppo. Gli telefonai e gli chiesi: "Vuoi cantare per la mia etichetta?". Rispose: "Certo, non ho lavoro". Non riuscivo a crederci.  Nacque così la storia dei Drifters. La Motown. Dal grande fiume del rhythm and blues degli anni Quaranta e Cinquanta si sono dipartite due correnti: quella in stile Atlantic, con Sam and Dave, Otis Redding, Wilson Pickett, più vicina al puro R&B: e quella in stile Motown della città di Detroit. Era una musica più sofisticata, modaiola e commerciale, molto meno reale e autentica della nostra, molto meno vicina allo spirito originale del blues. Ma lo stile Motown era esattamente quello che molti ragazzi di colore volevano ascoltare: un suono che rasentava il pop, che forse faceva sentire il nero più integrato nella società bianca. Il grande merito, o la grande colpa, della Motown è aver creato un suono che avrebbe poi portato alla nascita del pop americano. Anche adesso si sforzano di rimanere al passo coi tempi: il loro recente accordo con Jazzie B. è indice della voglia di conquistare nuovi mercati e orizzonti seguendo le aspettative della gente. La filosofia della Atlantic era l'esatto opposto: sfondare in più campi proponendo alla gente un nuovo suono. Solomon Burke. Sono tanti i personaggi strambi che ho incontrato in quarantacinque anni di vita artistica, ma nessuno ha raggiunto i livelli di Solomon Burke. Era la stella dell'Apollo, ma non rinunciava a vendere pop corn tra la prima e la seconda parte dello show. Giganteschi pacchetti di pop corn con la sua faccia stampata sopra. Quando gli dissero che un'altra persona aveva licenza di vendere pop corn all'interno del locale si precipitò fuori lungo la 125esima. Riapparve poco dopo con un grill in mano. Mi domandò: "Qualcuno ha i diritti per la vendita di panini caldi?". Risposi di no. "Bene, da questo momento li ho io". E affumicò l'intera hall. I gestori avrebbero rotto il contratto, ma non avevano nessun'altra star a portata di mano. Così Solomon Burke cantò e vendette panini. Guadagnando il doppio.    



lunedì 16 maggio 2022

EUDOSSIA

Città di ignota ubicazione. "A  Eudossia, che si estende in alto e in basso,  con vicoli tortuosi, scale, angiporti, catapecchie, si conserva un tappeto in cui puoi contemplare la vera forma della città. A prima  vista  nulla  sembra assomigliare meno a Eudossia che il disegno del tappeto, ordinato in figure simmetriche che ripetono i loro motivi lungo linee rette e circolari, intessuto di gugliate dai colori splendenti, l'alternarsi delle cui trame puoi seguire lungo tutto l'ordito. Ma se ti fermi a osservarlo con attenzione, ti persuadi che a ogni luogo del  tappeto corrisponde un luogo della città e che tutte le cose contenute nella città sono comprese nel disegno, disposte secondo i loro veri rapporti, quali sfuggono al tuo occhio distratto dall'andirivieni dal brulichio dal pigia-pigia. Tutta la confusione di Eudossia, i ragli dei muli, le macchie di nerofumo, l'odore di pesce,  è  quanto appare  nella prospettiva parziale che tu cogli; ma il tappeto  prova che c'è un punto dal quale la città mostra le sue vere proporzioni, lo schema geometrico implicito in ogni suo minimo dettaglio. Perdersi a  Eudossia è facile: ma quando ti concentri a fissare il tappeto riconosci la strada che cercavi in un filo cremisi o indaco o amaranto che attraverso un lungo giro ti fa entrare in un recinto color porpora che è il tuo vero punto d'arrivo. Ogni abitante di Eudossia confronta all'ordine immobile del tappeto una sua immagine della città, una sua angoscia, e ognuno può trovare nascosta tra gli arabeschi una risposta, il racconto della sua vita, le svolte del destino. Sul rapporto misterioso di due oggetti così diversi come il tappeto e la città fu interrogato un oracolo. Uno dei  due oggetti — fu il responso —  ha la  forma che gli dèi diedero al cielo stellato e alle orbite su cui ruotano i mondi; l'altro ne è un approssimativo riflesso, come ogni opera umana. (Italo Calvino, Le città invisibili, Torino, 1972)


lunedì 9 maggio 2022

Miniatura ispano-mozarabica

Qui a lato, una miniatura raffigurante San Luca appartenente all'Apocalisse o Beatus della Cattedrale di Gerona. Nella produzione dei cosiddetti Beatus (riduzioni commentate dell'Apocalisse), quello di Gerona è  l'esempio più significativo ed anche il più astratto: le figure vi subiscono infatti delle dislocazioni incredibili, con un profondo stravolgimento di significato. Tali dislocazioni non mancarono di affascinare Picasso,  che negli studi databili intorno al 1936-1938 deduceva dalla miniatura mozarabica alcuni connotati essenziali, per esempio gli occhi girati tutti e due dalla medesima banda di un profilo, come si rileva dal confronto tra una figurina (qui sotto) ricavata dall'Apocalisse di Gerona  e un disegno (in basso) ricavato da  uno studio  picassiano del 1938.



martedì 3 maggio 2022

LE MUR - Yilmaz Guney

Le immagini grezze del regista, che tornava a dirigere in prima persona un film dopo anni di sceneggiature scritte da dietro le sbarre, raccontano la vita dei tre gruppi, con particolare attenzione ai bambini. È fra loro infatti che il dolore sa mostrarsi con maggiore grado di crudeltà e di gratuità. Le ispezioni e le percosse delle guardie, i ragazzini costretti a mangiare le proprie pulci, gli abusi sessuali, i lavori forzati e ancora le percosse, le vessazioni. Infine la morte di un ragazzino, freddato mentre cerca di fuggire: è la goccia che fa traboccare il vaso; la rivolta si organizza e si barrica all'interno delle celle per chiedere trattamenti più
umani. Durante la vita di cella il popolo d'Anatolia ci è mostrato con tutte le sue tradizioni, i canti, le melodie festanti o sofferenti, i balli, le superstizioni, i cibi. Insomma vedendolo resistere nel chiuso della prigione, Güney ce lo fa immaginare com'è al di fuori, costretto da catene sociali, da vincoli d'onore, ma anche depositario di tradizioni secolari, rurali/orali, intatte e vitali. Nel frattempo le esercitazioni e i cori delle guardie e l'intrusione audio di spot commerciali radiofonici, ci danno il senso dell'ipocrisia della società, che negli anni in cui il film è girato associava militarizzazione e ingresso nel luccicante regno del consumismo occidentale. 
Il film è girato in un'abbazia francese, ma intende rappresentare il carcere di Ankara in cui lo stesso regista fu detenuto. Nello stesso carcere tre sezioni: quella maschile, quella femminile e quella minorile. A dividerle il muro del titolo. Guney, con naturalezza offre immagini cattive, spietate, marchiate a fuoco da un sapore di realtà che è difficile non avvertire allo stomaco. Ci mostra i dettagli di ematomi, cerotti, sangue rappreso. Un pulp neo-realista, senza artificio narrativo. Un film denuncia e un film poesia al contempo, di quelle poesie scritte con parole normali, non ricercate, ma dirette a tutti, alla gente, alle coscienze più che ai sensi estetici. Il film si basa sullo stato di barbarie presente nei penitenziari Turchi degli inizi anni '80, che tutt'oggi persiste. Dove bambini, donne e uomini, vivono alla mercé di inumani secondini e feroci egemoni statali, patrocinati da una legge che non possiede occhi né orecchie. Le carceri sono ancora il luogo della repressione del dissenso politico e ideologico, il luogo della ricerca di un consenso forzoso, luogo di contenimento delle problematiche sociali (il famoso tappeto sotto cui si nasconde la polvere) e infine luogo di negazione dei fondamentali diritti umani.