venerdì 27 dicembre 2019

LA GELOSIA

La gelosia nasce soprattutto dall’umiliazione che ciascuno di noi ha subito nei primi anni della propria vita quando è stato messo in ginocchio, piangente, di fronte a una qualsiasi immagine dell’autorità. Questa stessa immagine-fantasma è l’antagonista occulto che ci accompagna, angelo custode all’aspetto di Frankestein, pronto a rinnovare la sua impresa spezzandoci nuovamente nell’umiliazione; ed ha come alleato la parte di noi che, per avere già acconsentito, sa di poter cedere nuovamente. In questo senso la vera paura celata dalla gelosia è quella del tradimento di noi stessi, non già di quello altrui. Ancora, essa nasce dall’immagine culturale, patriarcale e cristiana in particolare, della donna come proprietà da difendere e della sua (per il tutto una parte) vulva come ricettacolo passivo. In questa logica noi raffiguriamo noi stessi come i soli autorizzati allo stupro: dagli altri temiamo lo stesso stupro che noi immaginiamo di poter compiere legalmente.
Così ancora una volta si umiliano il corpo e l’amore, e si rinnega prima di tutto in sé e poi negli altri il fuoco che accende di vita il corpo e gli dona tutta la grazia della divinità.
Nella visione pornografica cristiana dello stupro e del sesso, inteso come peccato e cosa immonda, sta la chiave della nostra avarizia prima di tutto nei nostri confronti e poi in quelli degli altri.
Insomma, la gelosia umilia chi è geloso doppiamente: prima di tutto perché lo inginocchia di fronte ad un fantasma del passato, ripetendo così una esperienza traumatica infantile; e poi perché avvilisce l’oggetto d’amore così che, tradito l’amore, si trasformerà in oggetto disprezzo.

lunedì 23 dicembre 2019

IL PENSIERO-SUONO


Non vi è dunque né materializzazione dei pensieri, né spiritualizzazione dei suoni, ma si tratta del fatto per cui il pensiero-suono implica divisioni e per cui la lingua elabora le sue unità costituendosi tra due masse amorfe. Ogni lingua crea dunque il proprio repertorio di significati articolando arbitrariamente la massa di per sé amorfa del pensiero. In questo senso il significato è linguisticamente autonomo: non esistono significati prima, al di fuori o indipendentemente dalla lingua; il significato nasce all'interno del sistema linguistico ed è un'entità tutta linguistica. 
Il ruolo caratteristico della lingua di fronte al pensiero non è creare un mezzo fisico materiale per l'espressione delle idee, ma servire da intermediario tra pensiero e suono in condizioni tali che la loro unione sbocchi necessariamente in delimitazioni reciproche di unità. Il pensiero, caotico per sua natura, è forzato a precisarsi decomponendosi.  

domenica 15 dicembre 2019

VOLUNTEERS – Jefferson Airplane

Woodstock 1969, quando i Jefferson Airplane si presentano sul palco, Grace Slick dichiara che se fino a quel momento ci sono stati gruppi “duri”, ora c’è un nuovo genere. Poi mentre il gruppo attacca Volunteers, annuncia come super ospite il pianista Nicky Hopkins. Purtroppo questo brano scatenato e rivoluzionario sarà sfumato nel film, sicuramente per motivi di censura. La multinazionale Warner Bross non ama certo sentir cantare: 
"Guardate cosa sta accadendo fuori nella strada:
è la rivoluzione, dobbiamo fare la rivoluzione!
Hey sto danzando giù nella strada,
è la rivoluzione, dobbiamo fare la rivoluzione!
Non è sorprendente tutta la gente che incontro?
E’ la rivoluzione, dobbiamo fare la rivoluzione!
Una generazione è invecchiata
una generazione ha trovato la sua anima.
Questa generazione non ha mete da raggiungere:
raccogliete il grido.
Hey, adesso è il momento per voi e per me.
E’ la rivoluzione, dobbiamo fare la rivoluzione!
Su, venite, stiamo marciando verso il mare,
è la rivoluzione, dobbiamo fare la rivoluzione!
Chi vi spazzerà via?
Saremo noi. E chi siamo noi?
Siamo i volontari d’Amerika,
i volontari d’Amerika,
i volontari d’Amerika!"
Grandi dinosauri del paleolitico californiano, i Jefferson Airplane (diventati Starship con il progresso tecnologico) volano da oltre venticinque anni nei cieli di San Francisco; in gioventù erano il complesso più audace del movimento psichedelico, del radicalismo hippie, dell'utopismo ecologico. A fondare il gruppo è nel 1965 Marty Balin. Entrato in società con amici nell'acquisto di un locale, il Drinking Gourd, ha l'intuizione di rinnovarlo sulle basi del nuovo rock emergente: lo ribattezza dunque Matrix e si mette a organizzare una house hand in quel posto, cercando musicisti che accompagnino lui, cantante. In breve trova i chitarristi Paul Kantner e Jorma Kaukonen, la cantante Signe Tole Anderson, il contrabbassista Bob Harvey e il batterista Jerry Peloquin: prendono nome Jefferson Airplane e sfoggiano un repertorio modellato sul folk rock
appena nato, con echi della tradizione americana combinati con la  musica di Beatles, Byrds e Dylan. Le esibizioni al Matrix suscitano scalpore e una potente major come la Rca è pronta a ingaggiare il complesso fin dall'autunno 1965, portandolo in studio qualche mese più tardi per il long playing d'esordio Takes off 1966, molto
ingenuo e derivativo: la formazione di queste prime sessions è già  cambiata rispetto agli esordi, con il batterista Skip Spence al posto di Peloquin e bassista Jack Casady invece  di Harvey. Il 1967 è l'anno d'oro della scena di San Francisco, che vive giorni esaltanti nel nome della nuova musica ispirata da droghe. pace e amore. I Jefferson sono alla testa del nuovo movimento, con una formazione ancora una volta rivoluzionata ma finalmente stabile: non ci sono più Skip Spence e  Signe Anderson, ma il nuovo batterista Spencer Dryden e la cantante Grace Slick, già celebre nell'ambiente cittadino come leader della Great Society. Proprio la Slick, con la sua personalità e il fascino prepotente, conferisce al gruppo quel plus che faceva difetto: energia, grande presenza scenica ma anche due canzoni vincenti come Somebody To Love e White Rabbit. Scritti a suo tempo con il primo marito Jerry Slick, quei brani diventeranno la chiave di volta dei nuovi Jefferson e i pezzi forti del loro secondo long playing, Surrealistic Pillow, colonna sonora dell'estate più bella di San Francisco, quella del 1967. L'album fa uscire il complesso dal bozzolo e lo impone clamorosamente in testa alle classifiche  statunitensi: la musica ha perso la timidezza degli esordi e traccia fantastici disegni di folk rock psichedelico, come dimostrano anche i pezzi di Marty Balin, principale autore del gruppo. Il successo ottenuto dal long playing e la fama acquisita nel corso di  leggendarie esibizioni ancora al Matrix, al Fillmore Auditorium e al festival di Monterey spingono i Jefferson a insistere sulla via della
sperimentazione psichedelica e a  “cogliere l'attimo fuggente” della civiltà di San Francisco in un disco audace e free form come After Bathing At Baxter's, uscito nel novembre 1967. Quelle del disco smettono di essere semplici canzoni ma diventano lunghe suite lunatiche con spazio all'improvvisazione, come dimostra soprattutto il deliquio chitarristico di Kaukonen in Spare Chaynge e il gusto rumoristico a "collage" che deve qualcosa alle Mothers Of Invention; tra i brani, un omaggio all'adunata hippie dello Human Be-In, Saturday Afternoon, e una delle più incantevoli fiabe Slickiane, Martha. Echi di quel mondo in fermento si colgono ancora con un tono però più  tranquillo, sul successivo Crown Of Creation del 1968; alla tempesta sonora di House At Pooneil Corners fanno riscontro deliziose ballate come Lather (da una poesia di James Joyce) e Triad (vietatissima canzone sull'amore libero, di David Crosby). Con quelle opere e un'attività in concerto sempre intensa, testimoniata dal live Bless Its Pointed Little Head del 1969. Il successo non ha intaccato il loro gusto polemico e la voglia di prese di posizione radicali. Lo dimostra nell'estate 1969 un album crudo come Volunteers, violenta satira antimilitarista in linea con la protesta studentesca nei campus e con il movimento delle «pantere bianche» di Jerry Rubin.

mercoledì 4 dicembre 2019

7:19 di Jorge Michel Grau

Città del Messico, 19 settembre 1985. Primo mattino, in un edificio governativo: tutti i dipendenti vengono convocati per una riunione straordinaria. Mentre prendono posto, improvvisamente un violento terremoto li seppellisce sotto nove strati di cemento e lamiere contorte. Bloccati tra le macerie del palazzo, i pochi sopravvissuti, tra cui Martin, il guardiano notturno, e Fernando, alto funzionario dello stato, sono lasciati soli nell’oscurità, aggrappati alle loro vite e in disperata attesa di aiuto.
Brividi e nostalgia accompagnano i miei ricordi. Non è tanto il terremoto in sé, gli oggetti che rimbalzano, o le vertigini. Non sono nemmeno la paura o l’ansia che mi sono rimaste. Mio padre stava portando me e mio fratello in macchina, lungo la Havre Avenue a Città del Messico, quando improvvisamente decine di edifici sono crollati come i giocattoli di carta, in un attimo. Mi sono rimasti impressi gli odori. Ricordo l’odore di gas che fuoriusciva dai tubi in frantumi sotto centinaia di tonnellate di macerie. Mi ricordo l’odore della morte che sentivo nel naso. È accaduto di mattina molto presto. Ricordo quell’odore che mi ha insegnato cosa fosse la morte. C’è un detto nel mio paese, una battuta che ha un fondo di verità, si dice che hai già qualcosa da raccontare ai tuoi nipoti. E sì, questo è quello che voglio dire loro: erano le 7:19 del 19 settembre 1985. Io avevo dodici anni. Un terremoto distrusse gran parte di Città del Messico, lasciando migliaia di persone sepolte sotto le macerie e altre migliaia senza più niente. Così la catastrofe ha raggiunto il Messico. La più grande tragedia ha colpito un paese che non era pronto a farle fronte.
Jorge Michel Grau è nato in Messico, diplomato in regia al Centro de Capacitación Cinematográfica, inizia la sua carriera producendo documentari culturali e programmi educativi. Nel 2004 si specializza alla Escola Superior de Cinema y Audivisuals de Catalunya di Barcellona e in seguito studia regia teatrale alla Escuela de Teatro de la Universidad Nacional. Tra il 2003 e il 2007 gira numerosi cortometraggi tra cui Mi hermano e Kaliman, mentre nel 2010 gira il suo primo lungometraggio, Somos lo que hay, selezionato per la sezione Quinzaine des Réalisateurs a Cannes e premiato ai Festival di Chicago, Montreal e Austin. Grau è anche docente di produzione cinematografica per la facoltà di Scienze Sociali dell’Università nazionale autonoma del Messico.