Per aver solidarizzato con i contadini oppressi, il governatore di una provincia del Giappone dell'XI secolo viene destituito ed esiliato. Sei anni dopo, la moglie, il figlio Zushio e la figlia Anju, mentre tentano di raggiungerlo, sono catturati e venduti come schiavi. Passano altri dieci anni. Presso il crudele intendente Sansho, Zushio fa carriera, divenendone il principale aiuto. Poi si ravvede, anche per i rimproveri della sorella e, fattosi riconoscere dalle autorità ufficiali e nominato governatore, arresta l'intendente e decreta la soppressione della schiavitù. Dimissionario, ritrova alla fine la vecchia madre cieca; padre e sorella nel frattempo sono morti.
Oggi come ieri, voglio fare dei film che rappresentino la vita e i costumi di una società data. Ma non si deve, in alcun caso, gettare lo spettatore nella disperazione. Bisognerebbe inventare un nuovo umanesimo che possa apportargli salvezza. Io voglio continuare a esprimere il nuovo, ma non posso abbandonare del tutto l'antico. Conservo un grande attaccamento al passato, mentre non ho che poca speranza nell'avvenire.
(Kenji Mizoguchi, in "Cahiers du Cinéma" n.116, febbraio 1961)
Scompare il falso romanticismo dei film in costume e scompaiono perfino gli scontri alla spada. L'eroe vince perché ha il diritto dalla sua. Mizoguchi insisteva ancora una volta sulla "tradizione umanistica", senza mai rinunciare alla speranza, per quanto cupo potesse apparire il futuro dei due bimbi. Soprattutto eccellente era la fotografia di Kazuo Miyagawa, l'operatopre di RASHOMON, che dava al film una bellezza in netto contrasto con l'orrore apparente del tema.
(Joseph L. Anderson e Donald Richie, "il cinema giapponese", Feltrinelli, Milano 1961)
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