mercoledì 27 aprile 2022

I COLORI DEL ROCK

Il termine rock'n'roll, come definizione musicale, è stato, fin dalle origini, ambiguo e restrittivo. Fin dagli anni Cinquanta il termine indicava una folta schiera di cantanti e musicisti estremamente  diversi tra loro, ma accomunati dalla volontà di rinnovare profondamente quel territorio musicale che spaziava tra il rhythm and  blues e il country and western. Inutile però separare le radici bianche  da quelle nere, le inflessioni musicali del sud da quelle del nord degli Stati Uniti. Perché, in realtà, il rock'n'roll fu un variopinto complesso di forze e di espressioni che, in un determinato periodo, agirono contemporaneamente, scatenando una nuova forma musicale. Ed è forse proprio questa la grande forza del rock: non   avere un confine ben preciso. Una cosa è certa: mai come allora, nella storia della canzone americana, il bianco e il nero furono tanto vicini. È  da escludere che il rock'n'roll potesse esplodere con tutta la sua forza travolgente senza la potenza catalizzatrice e l'intensità con cui i neri erano abituati a cantare, fin dagli anni lontani dei primi blues,  lunghe storie di lunghi dolori, e senza i gospel intonati nelle chiese, esplosioni di gioia, catarsi del corpo e dello spirito. Come è da  escludere che il rock'n'roll potesse imporsi a un pubblico così vasto senza le seduzioni innocue della tradizione bianca contenute nel pop e nel country and western. Il rock'n'roll ha ereditato dai neri la fisicità, l'appassionante tendenza allo spettacolo e alla teatralità, la potenza dell'impostazione vocale, l'improvvisazione delle parti vocali, il modo disinibito e carnale di muoversi, affrontare il palcoscenico e il pubblico. Della civiltà dell'America bianca si è giovato per incantare con i dolci luoghi comuni delle giovani generazioni, per diffondere attraverso i canali di proprietà dei bianchi (certamente più numerosi e potenti di quelli dei neri) il Nuovo Suono, per fare della musica, di quella musica, uno dei tanti prodotti tipici americani di cui  andare fieri. Le voci del primo rock'n'roll  sono lo specchio fedele di queste diverse tendenze, almeno quanto i personaggi che hanno dato un volto, uno stile e una configurazione a questo genere musicale. Gli interpreti bianchi accentuarono i tempi e le pulsazioni della canzone americana. La lingua inglese acquistò accenti sconosciuti; lo slang, le forme dialettali in uso nella vita comune, cominciarono a far parte dei testi delle canzoni. La pronuncia e il modo di scandire le parole davanti a un microfono persero per sempre la compostezza dei crooner e dei cantanti classici. La voce nel rock'n'roll poteva anche intrattenere, commuovere e far sorridere (i tre doveri del cantante negli anni Quaranta), ma non poteva non agitare la platea, entusiasmarla, scatenarla, sconvolgerla. Gli interpreti di colore scavalcarono persino la potenza vocale degli urlatori, degli shouter del rhythm and blues. In quei brevissimi e congestionati brani non si ravvisava più un preciso rapporto e un ordinato susseguirsi di porzioni cantate e porzioni strumentali. I centoventi secondi di una canzone erano tirati e convulsi, con la voce che si scatenava su una feroce progressione di piano, basso, batteria, chitarra elettrica e,  eventualmente, fiati. In quei musicisti il cui stile vocale non risente di evidenti infuenze nere (Gene Vincent, Johnny Cash, Everly Brothers, Carl Perkins, Charlie Feathers, Richie Valens, Eddie Cochran, Buddy Holly) il fiato del rhythm and blues soffiava  forte nello sviluppo strumentale, ad esempio nello stile delle batterie e delle chitarre elettriche. Il rock'n'roll, consciamente o no, uni due mondi fino ad allora separati; con il bianco del country e il nero del rhythm and blues colorò a modo suo la grande nottata degli anni Cinquanta.



martedì 19 aprile 2022

LA NASCITA DI VENERE

Non si può dire se la Nascita di Venere, pure del Louvre e di circa 25 cm di lato, sia un piccolo arano (o centrotavola) o un pettorale da cucire su una tunica. Risale al VI secolo, a quel che pare. Ed è, rispetto all'altro, troppo piccolo per essere, com'è, affollato. Il campo di mezzo (con la Nascita vera  e propria) è  un disco infatti di dieci centimetri di diametro. E i cinque personaggi  da costiparvi all'interno difficilmente potrebbero trovarvi luogo ed esibire un rapporto più favorevole rispetto ai cinque punti per testa, a mantenergli le misure canoniche. E sarebbe pur sempre un rapporto pessimo sul mezzobusto (10 X 10) anche al paragone del 16 X 16 della quasi illeggibile Gioconda nel già considerato 'ritratto a blocchi'. Come nel “ritratto a blocchi” (se i blocchi sono troppo grandi) così nel tessile, ove il campo disponibile sia troppo ristretto, non è possibile - data l'incomprimibilità dell'elemento  unitario - costiparvi tutti i particolari che vi si vorrebbero mettere. Bisogna scegliere a ragion veduta: o tralasciarli o ingrandirli. Nella Nascita di Venere, così nella scena centrale come nella circostante bordura con motivi acquatici, l'esecutore (o il progettista) ha saputo valersi nel modo migliore dei vincoli stessi che una tessitura di grana grossa (o in campo minimo) comporta. Nel suo genere è riuscito a realizzare un piccolo capolavoro. Ci troviamo di fronte a una figurazione dalla pregnanza icastica incomparabile. Una deformazione per così dire “lamarckiana” (l'uso crea l'organo e il disuso lo atrofizza) delle singole strutture o parti a seconda della funzione, che a ciascuna compete nella favola raffigurata, le fa  raggiungere infatti senza sforzo il più alto grado  d'informatività. Con intenti consapevolmente parodistici, l'autore ha qui saputo mettere a punto un compiuto sistema di opposizioni binarie (ammissione ed omissione, ingrandimento e riduzione, abbinamento e separazione), altamente informativo e compatibile altresì con la struttura sintattica del pupazzetto e la logica del “ritratto a blocchi”, che ne vincolava ulteriormente i modi operativi Ogni figura è assimilata al putto e alla sua grazia infantile. E gli occhi sono dilatati ed enormi, nasi e bocche ridotti a un semplice trattino. Le mani ancora, se prensili, sono del tipo “a guanto da sci”; ridotte viceversa a moncherini quando non competa loro che di significare la propria presenza; “a forchetta” (o a ferro di gondola) quando infine sia rilevante piuttosto il gestire. Ma  l'incomprimibilità del punto impone in ogni caso che le dita non siano mai più di tre (quattro al massimo) per mano e ciò vale anche per i piedi, per i capelli e le code dei paperi e dei pesci: forchette o pettini di misura costante nello spessore conforme dei rebbi, qual era appunto determinato in partenza dal passo medesimo del telaio. E tuttavia  la grazia  incomparabile di quei putti, di quei pesci e di quei paperi non ha proprio nulla d'ingenuo, di popolare, di incolto: ma tiene se mai della grazia ironica ed amabile degli animaletti umanizzati e dei personaggi cuccioli del periodo centrale dei cartoni di Walt Disney.


mercoledì 13 aprile 2022

BRAZIL di Terry Gilliam

Brazil è l’immaginario frustrato di un timido impiegato Sam Lowry, ossessionato da una madre sempre sotto i ferri della chirurgia estetica e da un lavoro alienante e delatorio per il Dipartimento Informazioni,  schiacciato dal peso della burocrazia informatica, innamorato di una camionista estremista ( una donna simile a quella che insegue nei suoi sogni, nei quali ogni volta ella si trasforma in angelo) e aiutato da un misterioso terrorista acrobata dell’aria condizionata. Ma il potere uccide 
la donna e imprigiona Sam accusato di tradimento dai burocrati, sopporta i supplizi e gli interrogatori continuando a sognare, fino a stremare i suoi persecutori. A volte, chi ha visto Brazil dalla prospettiva del ventunesimo   secolo è stato così gentile da definire in qualche modo «profetica» la descrizione di un mondo in cui le persone non fanno molto più  che guardare vecchi film su minuscoli schermi, mangiare strani cibi dall'aspetto disgustoso e sottoporsi a scellerati interventi di chirurgia plastica, sotto la costante minaccia di attacchi terroristici. Per quanto mi piacerebbe vestire i panni del profeta - sono pur sempre figlio di un falegname - devo confessare che tutta quella roba stava  già succedendo a metà degli anni Ottanta, bastava aprire gli occhi per vederla. In questo senso, direi che in Brazil c'era una componente  documentaristica oltre a quella
distopica. Animato da un’energia esplosiva e maniacale, Brazil vaga nei meandri impazziti di un mondo spersonalizzante, un nero 1984 nel quale l’ordine si è dato forme di follia e la scenografia si è avvoltolata in contorsioni prestabilite. La fantasia è cupa, sotterranea, paralizzante: una parabola oscura con la quale Gilliam mostra una società basata sull’opulenza per pochi, sulla merce,  sul consumismo obbligatorio per tutti, sulla bellezza, sulla omologazione e sul controllo totale.  Là dove l’ordine politico e culturale fondato sull’accumulo diventa insopportabile, soffocante, scoppiano attentati eseguiti da misteriosi commando eversivi che si annidano negli uffici, nelle officine, tra i corridoi dei  supermercati. L’allusione alla politica interna inglese è evidente, Brazil è il primo film che attribuisce una valenza positiva all’azione terroristica in un contesto occidentale, e che riconosce nello stesso tempo l’avvenuto naufragio di un modus vivendi che ha prodotto, dopo l’impero, la sporcizia e il grigiore della società capitalistica.



giovedì 7 aprile 2022

BALLATA DI COLORO CHE SI AIUTANO DA SÈ di Bertolt Brecht

Siedono ancora qui fra i verdi

cespugli sulla spiaggia, fumando.

E già il loro cielo diviene

atrofizzato e pallido.


Forse hanno reso audaci

i loro cuori con l’acquavite?

Qui il nero della notte

contemplano, stupiti.


Bevono? Ridono ancora?

La risata sale come fumo

e pende, d’un tratto, folle,

la luna, rossa, dentro il cespuglio.


Diviene pallido il loro cielo?

Come tutto questo fu rapido!

Passato è il loro giorno

ed essi ancora rimangono?


Loro sghignazzano ancora,

- L’uomo si aiuta da sé? –

Ma li percuote un alito

dell’abetaia in sfacelo.


Soffiano i venti desolati,

e di loro è sazio il mondo.

E in silenzio li lascia soli

la sera nel bassofondo.


sabato 2 aprile 2022

PENDOLARIA

Pendolaria, villaggio situato in Inghilterra, sulla linea ferroviaria Portsmouth-Waterloo Station, dove un pendolare può trovare tutto ciò che brama. Fu realizzato da un lontano discendente dello scienziato inglese Merlino, per favorire i pendolari stanchi, particolarmente il lunedì mattina. Il pendolare dagli occhi semichiusi getta appena un'occhiata dal finestrino sporco  di seconda classe, e all'improvviso il panorama diviene luminoso, quasi abbagliante. Il treno si ferma con dolcezza, senza scossoni, le porte si aprono senza rumore e per l'aria si diffonde una musichetta che ricorda i romantici film di terza visione della domenica pomeriggio. Sceso, ogni pendolare trova il proprio sogno segreto. Può essere una spiaggia di sabbia morbida dove si frangono dolcemente onde orlate di spuma; oppure una comoda poltrona accanto al caminetto, con un bicchiere di ottimo whisky, un cane giallo accoccolato e l'ultimo romanzo di Agatha Christie, con un numero infinito di pagine; o ancora il posto migliore alla finale dei campionati mondiali di calcio. Un uomo d'affari di Woking trovò un trenino elettrico lungo un miglio con un assortimento vastissimo di vagoni. Un capufficio di Surbiton trovò un piccolo giardino alla francese, già concimato e pronto per piantarvi le rose. Una commessa di Liphook trovò le rovine di un grande supermercato, da cui si levava ancora qualche fil di fumo;  accanto, una bella toga bianca e un'arpa romana, a sua disposizione. I viaggiatori possono andarsene in qualsiasi momento; il treno li ricondurrà alla stazione di  Waterloo senza un secondo di ritardo. (Elsepeth Ann Macey, London 1955)