lunedì 26 novembre 2018

Abolire le prigioni

Il regno odioso delle prigioni non finirà senza che ciascuno impari a non imprigionarsi più in un comportamento economizzato dai riflessi del profitto e dello scambio. Meno l'animalità si ingabbierà nella rigidità del carattere, arrabbiandosi per frustrazioni perpetue, più aprirà le porte del godimento a progressivi affinamenti, e più apparirà a tutti l'orrore di rinchiudere in cella dei condannati che vi languiscono non per i loro misfatti, ma perché esorcizzano i demoni che le persone oneste imprigionano in loro. I progressi che l'umanesimo auspica fanno rabbrividire. Se le prigioni spariranno senza che il godimento sia restaurato nei suoi diritti, esse cederanno soltanto il posto ad istituzioni psichiatriche ariose, in accordo con le terapie che anestetizzano nei condannati al lavoro quotidiano la violenza delle frustrazioni. Non è forse giunto il tempo di stabilirsi talmente nell'amore di sé che, arrivando ad adeguarsi dal fondo del cuore molta felicità, ci si affezioni agli altri per la felicità stessa che tocca loro in sorte, amandoli per il favore di amare che dispensano a se stessi? Non sopporto di essere abbordato per il ruolo, la funzione, il carattere, l'istantanea che mi fissa e mi imprigiona in ciò che non sono. Quale incontro sperare in un luogo in cui l'obbligo di essere in rappresentazione impedisce sempre che io esista? Mi importa soltanto la presenza del vivente, in cui convergono tutte le libertà che nessun giudizio ha il potere di arrestare.

giovedì 15 novembre 2018

MORE Pink Floyd

I Pink Floyd ritornano al cinema dopo la deludente esperienza di The Committe  grazie al regista Barbet Schroeder allievo di Godard.  Il regista francese nato a Teheran ambienta More a Ibiza. Il film è la storia di un vortice di droga e sesso tra lo studente tedesco Stephan e l’americana Estelle nell’isola tanto amata dal mondo hippie. Soundtrak From The Film More segna l’inizio della dominazione di Roger Waters che firma undici brani su tredici e imprime una direzione ben precisa al sound del gruppo, lasciando tutte le parti vocali al solo David Gilmour. Equamente diviso tra canzoni ed episodi strumentali, il disco è privo di lunghi brani e ha un’impronta sia rock che pastorale, senza più la lucida follia di Syd Barrett.
Il disco si apre con Cirrus Minor, dove spicca la tastiera di Richard Wright, la quale accompagna le prime immagini di perdizione dei protagonisti in una spirale discendente, che si spegne in un cinguettio di uccelli prima di lasciare posto al brano successivo. Cirrus minor è il perfetto vestito musicale per descrivere in musica la fase cruciale del film
in cui il protagonista si fa il primo buco, sprofondando prima nel rilassamento e benessere, controbilanciata poi dalle successive sensazioni di perdizione e incubo, quando gli effetti della droga si disperdono.
The Nile Song, un hard rock licantropo, vero e proprio gioiellino antesignano sonoro del grunge che verrà. La canzone appare nel film poco dopo l’inizio, quando il protagonista arriva con un amico alla festa privata parigina dove farà la conoscenza della sua bella.
A seguire la delicata Crying Song, ballad dai suoni leggeri e dai toni delicati conditi da chitarre acustiche è abbellita da delicati interventi di Wright al vibrafono e, poi da un assolo slide di Gilmour.   
 Up the Khyber (tradotto: “su per il Khyber”, valico Afgano, ma, più realisticamente, “su per il culo” nello slang londinese), un viaggio lisergico di due minuti e tredici di free jazz, nonché primo brano strumentale nella storia dei Floyd; una jam session jazz fra Wright ed il batterista Nick Mason, dove il tastierista sfoga al pianoforte la sua passione per lo stile di Thelonius Monk, eseguendo accordi violenti e dissonanti ed aggiungendo una partitura d’organo autenticamente psicotica, mentre il batterista spara un ritmo tribale in pieno stile Gene Krupa.
Il flusso sonoro torna subito calmo con Green is the Colour, una ballata cantata in falsetto da Gilmour accompagnata dagli svolazzi flautistici di Linda, moglie di Nick Mason. Al falsetto un poco convinto e neanche troppo convincente David Gilmour,
 Cymbaline  fragile serenata per flauto, chitarra, pianoforte e canto in sordina, di cui i Floyd facevano già ampio uso nei concerti e che, finalmente, trova degno spazio su disco. 
Dal vivo Wright trasformava questo brano, ingegnandosi a scoperchiare ben bene i molti cervelli acidi presenti fra il pubblico, attraverso un lungo intervento psichedelico ed orientaleggiante all’organo, aiutato da sensazionali effetti quadrifonici: una vera vacanza lisergica per gli hippie del tempo.
Party Sequence è il secondo strumentale, costituito da semplici bongos e flauti, che si incontra nell’album. La scena del film è quella di una festa fricchettona di Ibiza alla quale si recano i due protagonisti, piena di variopinta gente, un gruppo di percussionisti che suona e tutti gli altri a fumare, bere, impasticcarsi, chiacchierare e pomiciare. Tutti e quattro i Floyd si divertirono in studio a menar le mani sulle percussioni, assistiti dalla solita Linda Mason al flauto.
La seconda facciata del 33 giri si apre con un altro brano strumentale: Main Theme ipnotica e conturbante che il regista utilizza come Ouverture e chiusura del film. La musica commenta una suggestiva e dardeggiante immagine del sole oscurato da un’eclisse con un uso massiccio di gong, il suono dei quali si placa per far affiorare prima un mormorio d’organo e poi un ritmo ed una melodia sincopati.
Ibiza Bar segue la stessa struttura di The Nile Song, ne è una variante, quasi una clonazione, gli accordi variano di pochissimo, ma il sound della  chitarra e della batteria non cambiano di una virgola ma, il risultato finale è ben lontano dalla spontaneità e la qualità della seconda traccia.
More Blues è un puro esercizio di tecnica solistica blues per la chitarra di David Gilmour, qualche semplice svisata in libertà, su una base ritmica che si ferma e riparte per accompagnare il protagonista costretto a fare il barista e il piccolo spacciatore per il pusher dell’isola, a risarcimento del furto di eroina perpetrato dalla sua donna.
Quicksilver è il brano più lungo dell’opera, Ben sette minuti di pura sperimentazione strumentale che strizza l’occhio al passato psichedelico barrettiano, un robusto e articolato momento di musica strumentale concreta, che vede il tastierista Wright in primissimo piano. 
A Spanish Piece, strizza l’occhio alla musica iberica per un solo minuto, con due chitarre acustiche al ritmo di flamenco.
Dramatic Theme, un blues glissato chiude l’album, descrivendo puntualmente uno degli accadimenti vicini all’epilogo della pellicola, nel quale esplode la gelosia del protagonista, alle prese con l’evidente, doloroso legame di dipendenza fra la sua ragazza ed il pusher e con la vacuità dei suoi tentativi di cambiare le cose. 

lunedì 5 novembre 2018

A PROPOSITO DI TUTTE QUESTE ... SIGNORE di Ingmar Bergman

Il critico Cornelius si reca nella villa del celebre violoncellista Felix per scrivere la biografia del maestro. Incontra qui le donne che l'artista ha amato, ma non riesce a comunicare con nessuna. Felix muore nel momento in cui si accinge a suonare una composizione musicale scritta del critico.

Tutti gli artisti ma non gli autori, dovrebbero essere invisibili. Ciò renderebbe l'arte più igienica, sempre che si voglia ritenere questo un successo. Adesso (e in fondo in tutti questi ultimi anni) trovo il gusto dell'artista, di piazzarsi vicino alla propria opera d'arte e darne commenti, come un illecito intromettersi in ciò che è diritto dei critici e anche nella possibilità che il pubblico ha di provare ciò che vede, o ascolta o comunque sente. La gente si mangia l'opera d'arte, e l'artista ci si mette di buon grado di contorno.
(Ingmar Bergman nel catalogo di produzione "Ab Svensk Filmindustri 1964 -1965", Stoccolma 1965) 

I rapporti umani hanno sempre una profondità misteriosa e propongono, appena si parta a esplorarli, una duplicità senza soluzione: dove l'amore e l'odio, la ripulsa e la voglia, la colpa e l'innocenza, si intrecciano in nodi tali, che ogni giudizio sul nostro prossimo si riduce, in realtà, a una presunzione o a un arbitrio. Da Shakespeare a Dostoevskij a Svevo, non è certo Ingmar Bergman il solo autore che sia stato tentato da un tale problema. Si capisce che, secondo natura, per certuni esso sarà motivo di passione e di pietà; e per altri - quali appunto Bergman - sarà quasi un freddo oggetto di analisi scientifiche. Ma in ogni caso, l'attenzione a questo problema è, in un artista, un segno di nobiltà e di  impegno superiore. Si tratta difatti semplicemente del problema della coscienza morale: come dire, del problema fondamentale della persona umana.
(Elsa Morante, in "L'Europa Letteraria", n° 27, marzo 1964)