A partire dagli anni '60, un importante fenomeno di delinquenza sociale si sviluppò nell'insieme delle società occidentali in rapporto alla inaugurazione di un modello di sviluppo economico basato sulla gestione (da parte della triade stato-azienda-sindacato), di una crisi strisciante vista come mezzo di ristrutturazione permanente del mercato. In questo clima di compromesso storico le lotte operaie, per sfuggire al loro ruolo di cinghia motrice dello sviluppo, dovettero uscire dal quadro produzione-salario per affermare progetti che una rivalutazione storica della soggettività spinse verso puntuali radicalizzazioni, anche se inseriti nel quadro del sistema come nuovo mercato (qualità della vita, tempo libero, servizi, psicologizzazione dei rapporti sociali, sessuali, amorosi, ecc.).
Nel momento in cui la società si trasforma in fabbrica sociale, che il salario diventa il prezzo politico della sottomissione al lavoro, che l'inflazione diventa il costo sociale dell lotte, la crisi economica diventa una crisi del consenso sociale e si assiste alla crescita di una disposizione a rifiutare il lavoro come contropartita sociale del consumo (e del livello di vita in generale). Ciò in quanto il rifiuto del lavoro appare come il prezzo del riscatto politico o di uno sviluppo politico arbitrario, tanto più che il livello di produzione e della tecnologia sembrano negare la necessità del lavoro.
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