martedì 19 aprile 2022

LA NASCITA DI VENERE

Non si può dire se la Nascita di Venere, pure del Louvre e di circa 25 cm di lato, sia un piccolo arano (o centrotavola) o un pettorale da cucire su una tunica. Risale al VI secolo, a quel che pare. Ed è, rispetto all'altro, troppo piccolo per essere, com'è, affollato. Il campo di mezzo (con la Nascita vera  e propria) è  un disco infatti di dieci centimetri di diametro. E i cinque personaggi  da costiparvi all'interno difficilmente potrebbero trovarvi luogo ed esibire un rapporto più favorevole rispetto ai cinque punti per testa, a mantenergli le misure canoniche. E sarebbe pur sempre un rapporto pessimo sul mezzobusto (10 X 10) anche al paragone del 16 X 16 della quasi illeggibile Gioconda nel già considerato 'ritratto a blocchi'. Come nel “ritratto a blocchi” (se i blocchi sono troppo grandi) così nel tessile, ove il campo disponibile sia troppo ristretto, non è possibile - data l'incomprimibilità dell'elemento  unitario - costiparvi tutti i particolari che vi si vorrebbero mettere. Bisogna scegliere a ragion veduta: o tralasciarli o ingrandirli. Nella Nascita di Venere, così nella scena centrale come nella circostante bordura con motivi acquatici, l'esecutore (o il progettista) ha saputo valersi nel modo migliore dei vincoli stessi che una tessitura di grana grossa (o in campo minimo) comporta. Nel suo genere è riuscito a realizzare un piccolo capolavoro. Ci troviamo di fronte a una figurazione dalla pregnanza icastica incomparabile. Una deformazione per così dire “lamarckiana” (l'uso crea l'organo e il disuso lo atrofizza) delle singole strutture o parti a seconda della funzione, che a ciascuna compete nella favola raffigurata, le fa  raggiungere infatti senza sforzo il più alto grado  d'informatività. Con intenti consapevolmente parodistici, l'autore ha qui saputo mettere a punto un compiuto sistema di opposizioni binarie (ammissione ed omissione, ingrandimento e riduzione, abbinamento e separazione), altamente informativo e compatibile altresì con la struttura sintattica del pupazzetto e la logica del “ritratto a blocchi”, che ne vincolava ulteriormente i modi operativi Ogni figura è assimilata al putto e alla sua grazia infantile. E gli occhi sono dilatati ed enormi, nasi e bocche ridotti a un semplice trattino. Le mani ancora, se prensili, sono del tipo “a guanto da sci”; ridotte viceversa a moncherini quando non competa loro che di significare la propria presenza; “a forchetta” (o a ferro di gondola) quando infine sia rilevante piuttosto il gestire. Ma  l'incomprimibilità del punto impone in ogni caso che le dita non siano mai più di tre (quattro al massimo) per mano e ciò vale anche per i piedi, per i capelli e le code dei paperi e dei pesci: forchette o pettini di misura costante nello spessore conforme dei rebbi, qual era appunto determinato in partenza dal passo medesimo del telaio. E tuttavia  la grazia  incomparabile di quei putti, di quei pesci e di quei paperi non ha proprio nulla d'ingenuo, di popolare, di incolto: ma tiene se mai della grazia ironica ed amabile degli animaletti umanizzati e dei personaggi cuccioli del periodo centrale dei cartoni di Walt Disney.


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