Il termine rock'n'roll, come definizione musicale, è stato, fin dalle origini, ambiguo e restrittivo. Fin dagli anni Cinquanta il termine indicava una folta schiera di cantanti e musicisti estremamente diversi tra loro, ma accomunati dalla volontà di rinnovare profondamente quel territorio musicale che spaziava tra il rhythm and blues e il country and western. Inutile però separare le radici bianche da quelle nere, le inflessioni musicali del sud da quelle del nord degli Stati Uniti. Perché, in realtà, il rock'n'roll fu un variopinto complesso di forze e di espressioni che, in un determinato periodo, agirono contemporaneamente, scatenando una nuova forma musicale. Ed è forse proprio questa la grande forza del rock: non avere un confine ben preciso. Una cosa è certa: mai come allora, nella storia della canzone americana, il bianco e il nero furono tanto vicini. È da escludere che il rock'n'roll potesse esplodere con tutta la sua forza travolgente senza la potenza catalizzatrice e l'intensità con cui i neri erano abituati a cantare, fin dagli anni lontani dei primi blues, lunghe storie di lunghi dolori, e senza i gospel intonati nelle chiese, esplosioni di gioia, catarsi del corpo e dello spirito. Come è da escludere che il rock'n'roll potesse imporsi a un pubblico così vasto senza le seduzioni innocue della tradizione bianca contenute nel pop e nel country and western. Il rock'n'roll ha ereditato dai neri la fisicità, l'appassionante tendenza allo spettacolo e alla teatralità, la potenza dell'impostazione vocale, l'improvvisazione delle parti vocali, il modo disinibito e carnale di muoversi, affrontare il palcoscenico e il pubblico. Della civiltà dell'America bianca si è giovato per incantare con i dolci luoghi comuni delle giovani generazioni, per diffondere attraverso i canali di proprietà dei bianchi (certamente più numerosi e potenti di quelli dei neri) il Nuovo Suono, per fare della musica, di quella musica, uno dei tanti prodotti tipici americani di cui andare fieri. Le voci del primo rock'n'roll sono lo specchio fedele di queste diverse tendenze, almeno quanto i personaggi che hanno dato un volto, uno stile e una configurazione a questo genere musicale. Gli interpreti bianchi accentuarono i tempi e le pulsazioni della canzone americana. La lingua inglese acquistò accenti sconosciuti; lo slang, le forme dialettali in uso nella vita comune, cominciarono a far parte dei testi delle canzoni. La pronuncia e il modo di scandire le parole davanti a un microfono persero per sempre la compostezza dei crooner e dei cantanti classici. La voce nel rock'n'roll poteva anche intrattenere, commuovere e far sorridere (i tre doveri del cantante negli anni Quaranta), ma non poteva non agitare la platea, entusiasmarla, scatenarla, sconvolgerla. Gli interpreti di colore scavalcarono persino la potenza vocale degli urlatori, degli shouter del rhythm and blues. In quei brevissimi e congestionati brani non si ravvisava più un preciso rapporto e un ordinato susseguirsi di porzioni cantate e porzioni strumentali. I centoventi secondi di una canzone erano tirati e convulsi, con la voce che si scatenava su una feroce progressione di piano, basso, batteria, chitarra elettrica e, eventualmente, fiati. In quei musicisti il cui stile vocale non risente di evidenti infuenze nere (Gene Vincent, Johnny Cash, Everly Brothers, Carl Perkins, Charlie Feathers, Richie Valens, Eddie Cochran, Buddy Holly) il fiato del rhythm and blues soffiava forte nello sviluppo strumentale, ad esempio nello stile delle batterie e delle chitarre elettriche. Il rock'n'roll, consciamente o no, uni due mondi fino ad allora separati; con il bianco del country e il nero del rhythm and blues colorò a modo suo la grande nottata degli anni Cinquanta.
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