domenica 26 luglio 2020

PETER GREEN, Magic guitar

Di lui B.B.King aveva detto: " È l'unico chitarrista che mi fa sudare freddo". 
Tra  i chitarristi più influenti e rispettati dalla comunità rock, Peter  Green (1946, GB), vero nome Peter Greenbaum, nasce musicalmente come bassista quando, a vent'anni entra per breve tempo nei Peter B's Looners di Peter Bardens, dove incontra Fleetwood. Imbraccia la chitarra solista tre mesi più tardi, quando si unisce ai Bluesbreakers di John Mayall per sostituire Eric Clapton. Con i Bluesbreakers registra A HARD ROAD nel 1966, non facendo rimpiangere l'assenza di Clapton. Nel luglio 1967, assieme a Fleetwood e McVie bassista dei Bluesbreakers, dà l'avvio all'avventura Fleetwood Mac, guidandola sino al 1970. Incisero due dischi di limpido blues ritmico, e nel 1969 calarono a Chicago per una spettacolosa session con i sacerdoti del tempio in persona, Otis Spann, Willie Dixon Shakey Horton e la supervisione del celebre Marshall Chess, il tutto immortalato in BLUES JAM AT CHESS, un disco che rappresenta il testamento spirituale del blues revival. Fin dall'inizio ottennero un inspiegabile successo di pubblico, che si accrebbe quando  Green, travagliato da  una crisi di identità, perse di vista il blues e si mise a comporre strani, accattivanti armonie: il primitivismo voodoo di Ramblin' Pony (1967), il suo brano più sinistro, il tribalismo esoterico di Black Magic  Woman (1968), il suo tema più celebre, lo strumentale hawaiano Albatros (1969), la sua prima confessione mistica, la serenata dilatata di Man Of The World (1969), la sua canzone più lisergica, e l'inno trascendente The Green Manalishi (1970).
L'abbandono dei Fleetwood Mac coincide con la pubblicazione del suo primo lavoro solista, l'inquieto e discontinuo THE END OF THE GAME.
THE END OF GAME è un capolavoro: echi d'infinito che si rincorrono per foreste equatoriali e deliri allucinati di chitarra, musica primordiale che esala dalle viscere del mondo, un soliloquio che deflagra lentamente, un'espansione della coscienza che trapassa dolcemente dalla follia all'estasi. L'atmosfera, più che da session jazzistica, è da rituale magico propiziatorio. Tutti i brani sono soltanto strumentali. La chitarra domina da un capo all'altro del disco, ora stridula, ora feroce, ora sonnambula; chitarra che strilla impazzita, ubriaca, lasciva, l'inno supremo alla paura, alla disperazione, alla solitudine, l'ultimo respiro prima del nulla e dell'eterno. Ogni  brano è l'evocazione del clima minaccioso e opprimente della giungla e dei rituali occulti delle popolazioni primitive; e al tempo stesso è una preghiera orientale, o un viaggio lisergico. Peter Green ha portato alle estreme conseguenze il concetto blues della chitarra come "seconda voce". Quei brani sono frammenti lirici e ipnotici che tracciano la rotta della sua crisi esistenziale e della sua mistica conversione a una arcana religione dell'infinito.
Il suo  abbandono, proprio quando grazie a lui la  band cominciava a guadagnare i primi successi, è il preludio a un lungo periodo di instabilità e sofferenza, psichica e fisica, dovuto dapprima all'abuso di droghe e poi al disastroso tentativo di uscirne a colpi di elettroshock e pesanti dosi di psicofarmaci. Un calvario che lo vede vicino al suicidio e che passa attraverso la prigione e il manicomio.
Dopo otto anni di silenzio. Il rientro discografico avviene con IN THE SKIES, che finalmente restituisce al pubblico il chitarrista dal fluido fraseggio e il compositore degli esordi. Nel 1981 partecipa a un brano di THE VISITOR, debutto solista dell'antico compagno Mick Fleetwood. È questa la seconda fase della carriera di Green che pubblica con continuità, ma qualità alterna, sino al 1987. Green, di nuovo perso tra i suoi personali demoni, sparisce dalle scene sino al maggio 1996, quando a sorpresa partecipa alla terza edizione dell'Alexis Korner Memorial nella cittadina inglese di Buxton. In quella occasione è leader del Peter Green Splinter Group, con Nigel Watson (chitarra), Neil Murray (basso) e Cozy Powell (batteria). Con questa formazione inaugura la terza fase della sua tormentata carriera.
Dopo alcuni assestamenti, il gruppo prende una forma definitiva e inaugura una discreta serie di album e, una nutrita serie di concerti e tour in USA, Europa e Giappone. Alcune di queste date vedono Green accanto ad alcuni dei suoi vecchi idoli e mentori, come B.B. King e John  Mayall. Nel frattempo il musicista trova anche il tempo per pubblicare tre lavori solisti, BLUES FOR DHYANA, THE CLOWN, e il più riuscito REACHING THE COLD 100. 
Il 12 gennaio 1998, quando i Fleetwood Mac entrano nella Rock and Roll Hall of Fame, sul palco c'è anche lui, per una versione della sua Black Magic Woman  eseguita assieme a Carlos Santana, che la portò al successo. 





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