La Recta provincia, nome misterioso che prende il nome dall'ancora più oscura consorteria, istituzione indipendente degli indigeni dell'arcipelago di Chiloé dove le tradizioni mapuche vennero alla fine dell'ottocento bollate come stregoneria ma, come si vede nel film sopravvivono nelle leggende, credenze, canti e proverbi fino ad oggi. Ruiz ha composto il poema della terra cilena, ha posato i piedi sul suolo patrio e si è nutrito di ricordi ancestrali per riconsegnarli al pubblico internazionale con la commozione e l'ironia che gli sono proprie. Un film tutto racchiuso nella cordigliera delle Ande dall'incipit alla scena finale: per la prima volta al cinema si vedono le Ande come realmente sono, con il loro colore violetto, barriera invalicabile a racchiudere nei suoi settemila chilometri di lunghezza, un paese a forma di spada affilata, separato dal resto del mondo. Percorso da un sogno che sogna se stesso, da un racconto che si racconta è una parabola vigile, gesto d'amore e avvertimento, poema e cantilena, quasi uscito da un medioevo oscuro portatore di leggende.
“Un ritorno al passato che mescola folklore e tradizione, e insieme ricapitola molti film della mia vita. E un gioco di scatole cinesi: una parte è ispirata a Le mille e una notte, l altra alle teorie di fisica quantistica. Ma la base di partenza sono soprattutto le storie che ascoltavo da bambino: parlavano di pirati, licantropi, santi, vergini e diavoli. E anche di Gesù Cristo. Si tratta di un incrocio tra cultura romana e tradizione germanica. Compare un Gesù agnostico che, come narra la leggenda, non è mai asceso al cielo ma è rimasto in terra per provare ad aiutare gli uomini. Con una particolarità: nel frattempo è diventato vecchio e nessuno lo riconosce. Nel mio film ci sono due eresie ogni cinque minuti”.
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