Tutti conoscono quelli che ci sono sempre. Sono apprezzati e detestati come tutti quelli che si prendono cura e rimangono laddove tutti gli altri vivono e passano (il parroco, l'infermiera, la maestra, gli anziani, il farmacista). Sono il falso specchio della libertà, loro, gli assidui, gli schiavi di una servitù inedita che li illumina di una luce splendente: i combattenti, gli irriducibili, i senza privato, i senza pace. La rabbia per combattere, finiscono col trovarla nelle loro vite mutilate; attribuiscono le ferite ad una lotta nobile e immaginaria, mentre si sono feriti da soli allenandosi allo sfinimento. In verità, non hanno mai avuto la possibilità di scendere su un campo di battaglia: il nemico non li riconosce, li prende per un semplice disturbo, con la sua indifferenza li spinge alla follia, all'ordinaria insignificanza, all'offensiva suicida. L'alfabeto del potere non ha lettere per ricordarsi del loro nome; per il potere sono già scomparsi, ma resistono come fantasmi insoddisfatti. Sono morti e si sopravvivono nel transito dei visi che li attraversano, sui quali hanno più o meno presa, con i quali dividono la tavola, il letto, la lotta, finché i passanti non partono, o restano spegnendosi, diventando gli inerti di domani.
(Tatto da ROMANZO IN POLVERE di Gepy Goodtime, edizioni La Paz, Caracas 1977)
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