Le possibilità d'intervento sui suoni del disco erano tutte a monte della registrazione, sugli strumenti o sui musicisti. Determinanti gli amplificatori per chitarra - il Fender Showman con il suo impressionante cono JBL, il Gibson dal suono cupo o il Vox e il Marshall più modulato -, facili alla distorsione naturale (toccavano i 20 o 30 watt di potenza massima). Accanto ai trucchi meccanici (legare una scatola intorno al microfono o imbottire di cotone o di sassolini i tamburi della batteria), l'unico vero sistema per trasformare il suono già registrato: il variatore di velocità. Rallentando o accelerando il nastro del canto si ottenevano timbri più bassi o i leggendari cori marca Fifties. Depositario di questi pochi segreti, a metà strada tra il piccolo imprenditore e l'autore di canzonette, il produttore cominciò, a cavallo del ritmo sfrenato del rock'n'roll, a gettare le basi di un impero fatto di esperienza e creatività. Sull'esempio del profeta della categoria, quel John Hammond scopritore negli anni Trenta di Billie Holyday, Lionel Hampton, Count Basie (e, più in là, di Bob Dylan, Bruce Springsteen, Aretha Franklin) si muoveva George Goldner. Il suo campo d'azione era la strada, dove quotidianamente cercava giovani talenti da portare in sala di registrazione e trasformare in investimento di breve durata, ma sicuro. Dalle sue mani uscirono Gee, un brano dei Crows che alcuni indicano come il primo vero brano di rock'n'roll, Why Do Fools Fall In Love di Frankie Lymon and The Teenagers, e molti altri singoli dal sound tagliente e fresco. Molto diverse le impostazioni di Sam Phillips e Don Costa. Il primo faceva grande uso dell'eco (pensare a Mystery Train o a That's All Right Mama di Elvis) e di un accorgimento strumentale che faceva battere all'unisono batteria e basso, creando un robusto impatto del ritmo. Il secondo, di origine italiana, registrava su una pista gli strumenti tipici dell'orchestra, sull'altra la voce e gli strumenti tipici del rock'n'roll. Norman Petty ebbe il merito di comprendere che il successo di un brano dipendeva molto dal lavoro fatto in sala. Per questo si costruì a Clovis uno studio che in breve divenne leggendario perché associato al nome di Buddy Holly. Con lui Petty rivoluzionò l'uso delle due piste, usando per primo le sovraincisioni: su una pista l'intera struttura del brano, gruppo e canto; sull'altra le sovraincisioni di chitarra solista e il doppiaggio della voce del cantante. Non meno importanti le intuizioni strumentali di Petty, tutte basate su orchestrazioni semplici e suggestive. Quando in Everyday Petty sostituì la chitarra elettrica con la celesta, i rocker rimasero sconcertati. Ma su quella strada della fantasia si incamminarono, un decennio più tardi, Beatles e Rolling Stones. Ma fu Phil Spector il più grande innovatore, con il suo «wall of sound», il muro del suono. Le basi furono gettate a Hollywood, nei Gold Star Studios, famosi per gli echi profondissimi. In quelle sale, lontane miglia e miglia dagli studi di New York e Nashville da dove provenivano i successi dell'epoca, Spector portò l'arrangiatore Jack Nitzsche e il tecnico Larry Levine, per incidere He's A Rebel di Gene Pitney per le Crystals. Portò anche, tra la meraviglia generale, un organico doppio, due chitarre basso, quattro acustiche e due pianoforti: tutti questi strumenti suonarono all'unisono, amalgamati in un insieme pastoso e ricco d'echi. Lentamente Spector approfondì questa tecnica fino a registrare contemporaneamente violini, sassofoni, percussioni e chitarre in un magma sonoro, compatto quasi fosse il suono di un unico enorme strumento. In questo sound dalla concezione vagamente wagneriana, senza dubbio il più imponente tra quelli usati nella musica leggera, gli strumenti non si identificavano, compressi in un fluire continuo dove solo gli accordi erano modulati. Per questo il suo muro del suono non si avvaleva di tecniche straordinarie: poche le sovrapposizioni, quando (si era oramai negli anni Sessanta) si usavano le quattro piste. In compenso fu tra i primi ad usare i compressori del suono e ad attribuire al missaggio l'importanza che, poco dopo, tutti condivisero.
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