lunedì 23 maggio 2022

ATLANTIC RECORDS - Ahmet Ertegun

Nel 1947, insieme a Lionel Hampton e Max Silverman, che mandava avanti il Quality Music Shop sulla Settima Strada, vagabondavo da un locale all'altro, fino a tarda notte. Hampton   aveva un'idea fissa: fondare una casa discografica. Era una proposta affascinante, ma a me interessavano soltanto il jazz e il blues. E più tempo trascorrevo nel negozio di Silverman più mi rendevo conto che la gente non apprezzava più il primo jazz; ciò che voleva era il suono dolce, moderno e pseudo-jazz di Don Byas e Erroll Garner, artisti validi, ma orientati verso il pop. Così, quando incorporammo l'Atlantic nell'ottobre del 1947, decidemmo di produrre un sound che inglobasse le lezioni del jazz e del blues, ma che potesse diventare la musica nuova dei nuovi adolescenti. I nostri uffici, se vogliamo definirli in questo modo visto che erano due stanze al Jefferson Hotel, si trovavano a Broadway, sulla Cinquantaseiesima. Da lì a poco ci saremmo espansi fino a conquistare il mondo. Con la musica nera. All'inizio era molto difficile mettere sotto contratto grandi cantanti, così cominciammo dai grandi musicisti: Joe Morris, Johnny Griffin, Matthew Gee, PhiIly Joe Jones, Percy Heath, Elmo Hope, che più tardi sarebbe stato rimpiazzato da Ray Charles. Il primo hit fu Drinking Wine, Spo-Dee-O-Dee, che vendette quasi quattrocentomila copie e ci fece capire che il blues era un mercato  aperto. Con immensa fortuna mettemmo sotto
contratto Ruth Brown. La  prima volta che la vidi mi lasciò senza fiato. Dopo un paio di canzoni alla Doris Day senza infamia e senza lode, attaccò So Long. La feci firmare immediatamente. Non riuscii a convincere Little Miss Cornshucks, invece. Era un vero talento. Si presentava sul palco a piedi nudi e con un cestino in mano, per dimostrare che veniva dal niente, dalle acque fangose. Ma la Atlantic era ancora un'etichetta sconosciuta e lei non volle firmare. Peccato per noi, perché aveva la forza di una Dinah Washington, ma peccato anche per lei perché non ottenne mai un contratto. E  poi vennero LaVern Baker, Big Joe Turner e Ray Charles.  E con loro il successo. La   fondazione. Abbiamo creato da pochi anni la «Rhythm and Blues Foundation», ideata da un gruppo di persone di Washington, ma quasi interamente finanziata dalla Atlantic. Ogni anno la Fondazione assegna riconoscimenti e somme in denaro a chi ha contribuito a diffondere la nostra musica nel mondo. Ci sentiamo debitori nei confronti dei grandi artisti degli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta che hanno gettato i semi di quello che poi si sarebbe chiamato rhythm and blues e rock'n'roll. Sono stati dei pionieri e, per un motivo o per l'altro, non hanno ottenuto quei riconoscimenti, in fama e denaro, che avrebbero meritato. Alcuni di loro vivono pressoché in miseria
e senza assistenza. È nostro dovere restituire in altra forma quello che ci hanno dato da giovani. C'era un luogo, a New York, divenuto poi leggendario, che era  meta continua degli artisti stranieri e ritrovo sicuro per gli americani. Era l'Apollo Theatre, il posto dove tutti potevano vedere la musica che avevano sempre sentito. Quando Beatles e Stones vollero ripercorrere a ritroso la strada delle loro influenze, si fermarono all'Apollo. Era un locale magico: chiunque salisse sul palco, era per il pubblico un'esperienza indimenticabile. Era un posto dove si respirava il blues, l'espressione dello spirito della gente di colore, la Mecca della buona musica. Fu proprio all'Apollo che vidi per la prima volta Clyde McPhatter. Suonava ancora con i Dominoes. Caddi letteralmente dalla sedia, al termine della prima canzone. Aveva una voce angelica, con un splendida inflessione gospel. Un anno più tardi venni a sapere che era stato allontanato dal gruppo. Gli telefonai e gli chiesi: "Vuoi cantare per la mia etichetta?". Rispose: "Certo, non ho lavoro". Non riuscivo a crederci.  Nacque così la storia dei Drifters. La Motown. Dal grande fiume del rhythm and blues degli anni Quaranta e Cinquanta si sono dipartite due correnti: quella in stile Atlantic, con Sam and Dave, Otis Redding, Wilson Pickett, più vicina al puro R&B: e quella in stile Motown della città di Detroit. Era una musica più sofisticata, modaiola e commerciale, molto meno reale e autentica della nostra, molto meno vicina allo spirito originale del blues. Ma lo stile Motown era esattamente quello che molti ragazzi di colore volevano ascoltare: un suono che rasentava il pop, che forse faceva sentire il nero più integrato nella società bianca. Il grande merito, o la grande colpa, della Motown è aver creato un suono che avrebbe poi portato alla nascita del pop americano. Anche adesso si sforzano di rimanere al passo coi tempi: il loro recente accordo con Jazzie B. è indice della voglia di conquistare nuovi mercati e orizzonti seguendo le aspettative della gente. La filosofia della Atlantic era l'esatto opposto: sfondare in più campi proponendo alla gente un nuovo suono. Solomon Burke. Sono tanti i personaggi strambi che ho incontrato in quarantacinque anni di vita artistica, ma nessuno ha raggiunto i livelli di Solomon Burke. Era la stella dell'Apollo, ma non rinunciava a vendere pop corn tra la prima e la seconda parte dello show. Giganteschi pacchetti di pop corn con la sua faccia stampata sopra. Quando gli dissero che un'altra persona aveva licenza di vendere pop corn all'interno del locale si precipitò fuori lungo la 125esima. Riapparve poco dopo con un grill in mano. Mi domandò: "Qualcuno ha i diritti per la vendita di panini caldi?". Risposi di no. "Bene, da questo momento li ho io". E affumicò l'intera hall. I gestori avrebbero rotto il contratto, ma non avevano nessun'altra star a portata di mano. Così Solomon Burke cantò e vendette panini. Guadagnando il doppio.    



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