Il mio film è partito da due concetti che si ricongiungono. In primo luogo: mostrare le tappe della vita di un asino uguali a quelle della vita di un uomo. L’infanzia: le carezze. L'età matura: il lavoro. Il talento o il genio: l'asino sapiente. Il periodo mistico che precede la morte: l'asino che trasporta le reliquie... In secondo luogo: questo asino passa tra le mani di vari padroni, che rappresentano ognuno un vizio umano, ubriachezza, pigrizia, orgoglio, ecc.; egli ne soffre in maniera differente, ma li vede con l'occhio di un giudice. (Robert Bresson)
L'asino simboleggia la vittima, il sacrificato («È un santo!» - gli esclama la madre di Marie). Ognuno dei suoi padroni incarna a sua volta un vizio dell'umanità. Per ciascuno di essi Balthazar dovrà essere oggetto di scherno e atroce vittima. La sua morte, con un carico d'oro, è il peccato, la maledizione stessa dell'uomo. Balthazar non parla. Soffre e niente più. Ma il suo occhio appare quello dell'eterno. Dei suoi aguzzini Balthazar deve pur pensare su qualcosa: e la sua presenza, il suo sguardo, la sua docilità assume anche la consapevolezza del giudice. V'è nel film una carica di umanità e di pietà che lo eleva al di sopra dei sentimenti comuni. È l’opera di un maestro, ed è ben per questo che gli manca la novità, la provocazione, il sangue impetuoso delle opere giovani. Vi si apprezza una saggezza e una nobiltà antiquaria.
Bresson è un artista credente, uno dei pochi validi rappresentanti di un cinema ispirato ai misteri della trascendenza. Ma il suo è un cristianesimo doloroso e inquieto, forse non immune da venature giansenistiche, pessimista al punto di sentire in maniera ossessiva il peso del peccato originale, di contrapporre al male connaturato al mondo degli uomini (salvo la breve stagione dell'infanzia) il più umile e paziente degli animali quale simbolo di una innocenza perduta, di evangelica sopportazione e mansuetudine. È azzardata l'ipotesi che nel calvario di Balthazar, nella sua pupilla mite ma giudicante si riflette una allegoria divina? La scelta dell'asino a questo proposito non è casuale; dalla capanna della Natività alla festa della domenica delle Palme, a tutta la tradizione tipica e medievale questo animale è un testimone frequente nella anedottica e nella simbologia cristiana. Un apologo di sapore evangelico, dunque? Forse, ma certo di un vangelo moderno, con gli occhi bene aperti sulla disincantata realtà del nostro tempo. Così colui che fu il poeta del dubbio e della Grazia nel Diario di un curato di campagna, sembra approdare alla constatazione di un universo desolato, tutto crudeltà e corruzione, dal quale la luce della Grazia si allontana, e comunque esigerà ancora una lunga e penosa ricerca da parte degli uomini di buona volontà. Coerente anche se nuovo nell'approfondimento dei suoi motivi, Bresson altrettanto coerente nella costrizione dell'opera e nei modi stilistici. Il suo è un cinema che gli sprovveduti, i fatui, i palati guasti dalle volgari droghe del film mercantile potranno accusare di povertà, di squallore e di monotonia. Ma Bresson è artista del cavare non dell'aggiungere. La sua nudità francescana, il suo dispregio per i lenocini spettacolari sono il risultato di una feroce disciplina, di una strettissima parsimonia espressiva, che chiude tutto il racconto entro la geometria di linee dure e rigide, ravvivata però dal lievito di una straordinaria intensità e spiritualità interiore. Si vedano come a «test» tutte le scene di violenza, di brutalità e di erotismo; si veda la sequenza di Maria spogliata e percossa, la sua nudità pura come un quadro impressionista, e si comprenderà cosa significhi la suprema sobrietà di un'arte dove tutto, dalla fotografia alla colonna sonora, obbedisce a una sola armonia di rapporti e di ritmi.
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