In lingua zufri, Apache vuol dire "Nemico" e questo dice tutto sul modo nel quale questo popolo era visto dai propri vicini. Gli Hopi, però, preferivano chiamarli "Gente dei Cactus", per contrapporre il proprio modo di vivere alloro, errante e nomade. Gli Apache infatti non coltivavano la terra né allevavano bestiame, e l'asprezza del territorio nel quale vivevano non consentiva loro di accumulare troppe provviste per l'inverno: dunque, le razzie costituivano l'unico mezzo attraverso il quale procurarsi il necessario. La Loro economia, in sostanza, si basava sulla rapina. Apache è un nome affascinante, che suggerisce un'affinità tra queste coriacee piante spinose e il modo nel quale gli Apache affrontavano la vita in ogni suo aspetto. Guerra compresa. La guerra della "Gente dei Cactus" era, infatti, "pungente" proprio come le spine di queste piante: gli Apache rifuggivano lo scontro in campo aperto ogni qualvolta ne avevano l'occasione e preferivano affidarsi a fulminee incursioni, dopo le quali sparivano nel nulla come fantasmi. Il loro era un modo di combattere rapido e brutale, dunque, ma anche insidioso, fatto di agguati e ingegnose imboscate. Gli Apaches normalmente utilizzano tre tipologie di imboscate da loro.La prima, divenuta in seguito talmente nota da non ingannare quasi più nessuno, consisteva nel mandare uno sparuto gruppo di guerrieri contro il nemico, fingendo casualità nel contatto, e di farli poi ripiegare velocemente in modo da attirare gli inseguitori in trappola; per la riuscita erano necessari cavalli freschi e veloci, guerrieri coraggiosi disposti a fungere da esca e un nemico poco accorto che si facesse prendere dall'entusiasmo di una facile vittoria. Meno conosciuto era il trucco di fingere una fuga dopo le prime scaramucce e di riparare con apparente panico all'interno di una zona di folta vegetazione, dove quindi la visibilità fosse scarsa, per poi uscirne in due gruppi separati che, manovrando a semicerchio, sorprendevano il nemico da entrambi i fianchi. Ma lo stratagemma più usato era quello più semplice: osservare con invisibili esploratori la marcia del nemico per poi organizzare una letale imboscata in un luogo favorevole lungo il tragitto, in genere angusti canyon o gole dalle pareti a picco. In alcuni casi, ci si poteva permettere il lusso di risparmiare le preziose munizioni e bersagliare dall'alto i nemici con massi e grosse pietre.
Non conosciamo altra bellezza, altra festa che quella che distrugge l'abuso delle banalità quotidiane e dei sentimenti truccati, basterebbe un colpo di vento per trasformare questo delirio permesso nel più grande incendio che la storia conosca.
giovedì 22 aprile 2021
giovedì 15 aprile 2021
DALL' ARRAMPICARSI SUGLI ALBERI - Bertolt Brecht
I.
Quando uscite dalla vostra acqua a sera
— poiché dovete essere nudi e la pelle morbida —
salite anche sui vostri grandi alberi
alla brezza leggera. E il cielo deve essere smorto.
Scegliete grossi alberi che a sera, neri
e pigri, cullano le loro vette!
E attendete la notte nel loro fogliame
e intorno la fronte incubo e pipistrello!
2.
Le foglioline ispide nei cespugli graffiano
la vostra schiena che saldamente dovete
rizzare tra i rami; cosí vi arrampicate
con un leggero gemito piú in alto tra i rami.
È tanto bello cullarsi sull'albero!
Ma non cullatevi con le ginocchia!
Dovete essere per l'albero come la sua vetta
da cento anni a sera: lei lo culla.
giovedì 8 aprile 2021
FOR YOU LOVE – The Yardbirds
giovedì 1 aprile 2021
NAZARIN – Luis Bunuel
Il prete Nazarin procede nella grande tradizione degli spagnoli pazzi avviata da Cervantes. La sua pazzia consiste nel prendere sul serio le grandi idee e le grandi parole, e nel cercare di vivere di conseguenza. Pazzo è colui che rifiuta di ammettere che la realtà è reale, anche quando è soltanto un'atroce caricatura di come dovrebbe essere la realtà. Don Chisciotte vede la sua Dulcinea nella figlia di un contadino, e Nazarin riconosce l'immagine desolata dell' "uomo caduto" dietro le mostruose fattezze di Andara e Ujo; e l'eco dell'amore divino dietro la frenetica bellezza di Beatriz. Lungo tutto il film noi seguiamo la "cura" del pazzo Nazarin, o meglio la sua tortura. Egli è respinto da tutti coloro che incontra, i ricchi perché lo considerano un pericoloso antisociale, gli altri, le vittime, perché hanno bisogno di un genere di consolazione diverso e più efficace nell'immediato. Le stesse donne che lo seguono (un misto tra Sancho Panza e Maria Maddalena) hanno nei suoi confronti sentimenti ambigui. Mentre l'ultima rivelazione gli giunge in prigione, dov'è costretto tra criminali e assassini: la "bontà" di Nazarin, esattamente come la "cattiveria" di El Sacrilego, è priva di conseguenze pratiche in un mondo dove ciò che conta è soltanto l'efficacia. In questo senso, Nazarin è per Bunuel la storia della perdita di un'illusione: quella del Cristianesimo. Ma c'è dell'altro. Mentre l'immagine di Cristo si fa sempre più pallida nella coscienza di Nazarin, un'altra immagine si fa strada: quella dell'uomo. Gradualmente, Bunuel ci mostra attraverso una serie di episodi esemplari questa doppia evoluzione: la distruzione dell'illusione divina e la scoperta della realtà dell'uomo. Il soprannaturale cede il posto alla natura e al suo potere. Una rivelazione che appare più forte in due momenti indimenticabili del film: quando Nazarin offre la sua "consolazione celeste" alla moribonda innamorata, che risponde, fedele al suo amore: «Cielo no, Juan si»; e alla fine, quando Nazarin rifiuta dapprima l'elemosina, per poi accettarla, non come carità, ma come segno di amicizia. Così, Nazarin abbandona la sua solitudine: ha perso Dio, ma a trovato amore e fratellanza.