lunedì 26 marzo 2018

Aqualung Jethro Tull

I Jethro Tull furono una delle più originali formazioni inglesi negli anni Settanta. La loro attività prosegue a tutt'oggi, ma probabilmente il loro capolavoro rimane il quarto disco, pubblicato nel 1971. La copertina, fra le più famose e riconoscibili della storia del rock, se non fra le più belle, ritrae un barbone dallo sguardo bieco e luciferino, abbandonato a sé stesso in una delle tante zone nere della città, maliziosamente a caccia di ragazzine a passeggio . Aqualung, nome del disco, della prima traccia e del personaggio in copertina, significa autorespiratore. Il titolo venne deciso pensando al rumore sibilante che, nella fantasia di Anderson, il barbone emetteva a ogni respiro.  La mistura esplosiva di hard-rock, folk britannico, strumenti di tradizione classica e la tendenza a una peculiare deformazione ritmica della forma-canzone, fanno di Aqualung il disco musicalmente più vario ed equilibrato della produzione della band.  Un ottimo esempio di quella musica a cui i Tull ci hanno abituati nel corso degli anni: un Progressive Rock con vigorosi accenni hard mescolati ad una forte vena folk dettata anche da un uso massiccio ma mai banale del mitico flauto che ha ricamato e condito con particolare fantasia le varie tracce di questo ed altri loro album.
Gli argomenti trattati nell’album riguardano sia le condizioni di vita degli strati poveri della società e, soprattutto nella seconda parte del disco, una riflessione articolata, mediante una tagliente e velenosa ironia, sulla chiesa e sulla religione.
Il disco si apre con Aqualung  un riff di chitarra potente ed incisivo segue la voce stentorea e nasale di Anderson, capace di notevoli cambi di registro, e magistrale nell'equilibrare la melodia della chitarra con glissando e improvvise ruvidezze, mentre dipinge lo squallido quadretto urbano. Il repentino dimezzamento del tempo a metà canzone introduce la vena acustica del gruppo e aggiunge in effetto drammatico alla canzone.
Si prosegue con Cross-eyed Mary, un ululato soffuso avvia la danza del flauto traverso, sopra un delicato e minimale lavoro di basso, mentre le tastiere aggiungono un po' di atmosfera che il piano addolcisce con timide note, finché la batteria non si unisce a loro, facendo mutare il pezzo in una marcetta cadenzata, in un crescendo che sfocerà in vibranti note del flauto, sostenuto da un pianoforte più marcato. Il brano ci racconta la storia di una prostituta che si intrattiene con uomini facoltosi per poi dare soldi ai poveri dove la fa da padrone un superbo e vibrante flauto traverso.
I successivi tre pezzi Cheap Day Return, Mother Goose, e Wond'ring Aloud, si reggono alla grande su chitarra acustica, flauto e violini, e sulla voce nasale di Ian, oltre che su una ritmica di grande effetto. 
Up To Me innalza di nuovo la tensione e ci trasporta in un'atmosfera da medioevo inglese, il testo è un ritratto proletario, malinconico. Il refrain strumentale per flauto e chitarre è emblematico, in tre minuti abbiamo la summa della musica dei Jethro Tull.
Il lato B si apre con My God, che probabilmente costituisce la più alta vetta artistica di Anderson: un brano di sferzante satira sul tema della religione come elemento di controllo sociale. Si tratta di una mini-suite dove una chitarra acustica solitaria si lancia in una introduzione coinvolgente, prima di arrivare al riff principale, al quale si uniscono piano e voce, in un incedere grave e insinuante. Nel ritornello la musica sembra distendersi, prendere respiro, ma ripartono subito i lenti arpeggi, quasi inquietanti nella loro bellezza; poi il pezzo si apre, ed entrano in campo chitarra, basso e batteria, che lo rendono più potente e maestoso. A questo punto entriamo nel leggendario, con l'attacco di un assolo di chitarra a dir poco magnifico, firmato Martin Barre, al quale ne segue un altro di flauto, anch'esso stupendo, con un Anderson in stato di grazia che suona una complessa melodia, che sfocia poi in un epico crescendo arricchito da canti gregoriani. Improvvisamente sembra fermarsi e quietarsi, ma solo per riprendere con più carica di prima, in un intreccio di linee vocali e strumentali da far venire i brividi, finché non entra in scena la batteria, trascinandosi dietro pianoforte, basso e chitarra, che per un attimo riportano il flautista alla sua iniziale scanzonata leggerezza e infine si si ritorna alla cupa melodia d'apertura.
Il successivo brano si intitola Hymn 43 e prosegue con la satira contro la religione e le sue strumentalizzazioni. È un semplice rock-blues di impianto tradizionale, ma la sua collocazione dopo i sette minuti di My God serve a stemperare la tensione. Lo si potrebbe quasi considerare come una coda al pezzo precedente, di cui tra l'altro riprende i temi, un semplice inno finale a chiudere una rappresentazione teatrale. 
Segue  Slipstream dalle atmosfere rarefatte, un brevissimo quanto affascinante brano per chitarra acustica e voce sul tema della morte, arricchito da un lieve intervento di violini. 
Locomotive breath; fra Liszt e il jazz, accordi di pianoforte tesserano la membrana sincopata hard-rock-blues, densa nel pingue basso e negli stop subitanei delle percussioni. Ottima la voce di Ian Anderson ed il suo inossidabile flauto traverso, istrionicamente accompagnerà il beffardo, disperato respiro di una locomotiva senza freni. Il brano è un vero e proprio marchio di fabbrica nelle esibizioni dal vivo, riassume in sé tutta la vena hard-rock dei Jethro Tull: introduzione di flauto, riff sincopato, ritmo di marcia, arresti improvvisi della batteria, canto istrionico e nasale. 
L'album si chiude con Wind Up, ballata per pianoforte e voce. La voce narrante ricorda l'infanzia e riporta in primo piano tutti i nuclei tematici del disco: la condizione dei falliti, la religione come strumento di potere, le ipocrisie della piccola borghesia inglese e, infine, la fede come fatto intimo ed esclusivamente personale.

lunedì 19 marzo 2018

BELLADONNA la pianta del diavolo

Una delle piante più adoperate, presente in una moltitudine di pozioni e quasi sempre nella famosa pomata del sabba, era la belladonna, che contiene svariati alcaloidi, soprattutto l’iosciamina, atropina e scopolamina. I suoi effetti sul sistema nervoso centrale sono molto rapidi. Anche il giusquiamo contiene la scopolamina, che ‘ un forte narcotico. I suoi principi attivi agiscono soprattutto sul sistema nervoso simpatico: caratteristica la sensazione di assenza di peso, paragonabile a quella del volo. Altro elemento l’oppio che veniva assunto sotto forma di nepente, cioè cloridrato di morfina e acido citrico (succo di limone) sciolto in marsala, e si diceva che allontanasse il dolore. Per finire la canapa e il papavero da oppio.
Debitamente cotti, tritati o ridotti in polvere, questi potenti vegetali venivano mescolati con altri ingredienti. Alcuni funzionavano come mediatori chimici dell’azione degli alcaloidi vegetali; altri erano destinati alla suggestione psicologica, sia perché difficili da reperire, sia per pura affinità simbolica. Vedi le ali di pipistrello. Tutte queste sostanze venivano poi unite a un eccipiente grasso preferibilmente, secondo le accuse degli inquisitori, ricavato dai bambini, meglio se non battezzati). Si otteneva una pasta facile da spalmare, perché le sostanze attive potessero essere assorbite per via cutanea. La pomata veniva applicata nelle zone dove l’epidermide era molto sottile e densamente vascolarizzata, di preferenza sulle mucose: alcune testimonianze parlano dell’uso di spalmare la scopa con l’unguento, che passava così direttamente alle mucose vaginali. Altri luoghi in cui strofinarsi erano la parte interna delle cosce, le ascelle, i lati del collo: attraverso la fitta rete di capillari superficiali, i principi attivi attraversavano velocemente la pelle e penetravano nella circolazione sanguigna, entrando in circolo fino a raggiungere le sinapsi cerebrali. L’effetto della crema veniva accresciuto ricorrendo ad alcuni accorgimenti che possiamo ritrovare presso gli sciamani amazzonici: in primo luogo, il digiuno, non si sa quanto e fino a che punto volontario. Poi, la musica: il sabba veniva accompagnato da suoni indiavolati prodotti da strumenti maledetti, che potrebbero assomigliare molto ai ritmi tribali delle percussioni suonate per ore senza interruzioni durante i riti sciamanici.

venerdì 9 marzo 2018

Che cosa vogliono gli anarchici di Emile Henry

Emile Henry, il 12 febbraio, per vendicare l’esecuzione dell’anarchico Vailant lancia una bomba all’interno del Cafe Terminus, ma viene inseguito e arrestato alla fine di una furiosa colluttazione in strada, durante la quale resta uccisa una guardia. Processato il 27 aprile, Henry è condannato a morte e recluso alla Grande Roquette. 
Emile viene ghigliottinato a Parigi il 21 maggio 1894.

"Che cosa vogliono gli anarchici? L’autonomia dell’individuo, lo sviluppo della sua libera iniziativa che, soli, potranno assicurargli tutta la felicita possibile. Se l’anarchico ammette il comunismo come concezione sociale, e per semplice deduzione, perché comprende che e solo nella felicita di tutti, liberi ed autonomi come lui, che troverà la propria.
Ognuno di noi ha una fisionomia e delle attitudini speciali che lo differenziano dai suoi compagni di lotta.
Cosi, non siamo stupiti dal vedere i rivoluzionari tanto divisi nella direzione dei lori sforzi. Ci si domanda quale sia la buona tattica: essa e ovunque proporzionale alla somma di energia che si apporta all’azione. Ma non riconosciamo a nessuno il diritto di dire: "Solo la nostra propaganda è quella buona; fuori di essa non v’è salvezza". E un vecchio residuo di autoritarismo nato dalla vera o falsa ragione che i libertari non devono tollerare.
Uno dei primi insegnamenti dell’anarchia è questo: "Sviluppa la tua vita in tutte le direzioni, opponi alla ricchezza fittizia dei capitalisti, la ricchezza reale degli individui possessori di intelligenza ed energia".

venerdì 2 marzo 2018

Hermitage di Carmelo Bene


Nella camera di un albergo un uomo gioca simbolicamente con se stesso, con ciò che lo circonda, oggetti e forme evanescenti, sino a stabilire, nella profondità della sua psiche, una identità "uomo-donna" che gli è intimamente radicata.

Nel cinema esiste il montaggio, sicché il film non è soltanto già scritto, ma anche già letto, dal momento che viene montato. Sicché è già criticato, criticato, criticato. Un'ultima critica che si aggiunga al montaggio non può essere che una diffamazione. Durante il montaggio, critico quello che ho girato. La critica può sparire a patto che la critica sia stata portata a termine; è può ricominciare il cinema. Se ci si rifiuta di essere contemporanei, bisogna prendere posizione. Io non mi interesso degli operai perché non mi interesso di me stesso. Bisogna rifiutare l'attualità. Se le strade non ti vanno, non c'è bisogno che tu esca. Non devi uscire. Lo ripeto: bisogna rifiutarsi di essere contemporanei. Provo vergogna per quelli come me, ritengo anzi che occorra assumere un atteggiamento aristocratico; e occorre il coraggio di sostenerlo. E' la migliore soluzione. Non so dire se sono un idealista ma, certo, mi vergogno di essere un cineasta.
(Carmelo Bene, in "Zoom" n.1,1975) 

Questo film è importante perché ha il carattere di un vero e proprio manifesto della poetica di Bene. In esso, infatti, sono contenuti, in nuce, i temi, i motivi, lo stile, le tendenze e i rimandi culturali di tutta quanta la sua opera.