Pedalare è sinonimo di andare via, affrancarsi dalla condizione di bipede, infrangere la legge di gravità ed entrare nel fluttuante e ritmico mondo della tubolarità. E pura magia, la meraviglia di sentire il corpo entrare in automatica, dopo aver superato la goffaggine iniziale.
E' un atto programmato nel nostro DNA come nuotare o fare l'amore che ci aiuta a comprendere che il vero equilibrio è insito nel movimento e non nella stasi. Un atto gratuito, un'iniziazione in piena regola, con tanto di prove e perdita di sangue (le ginocchia sbucciate e le mani scartavetrate). La partecipe attenzione di un anziano che risveglia nel neofita una rinnovata confidenza con il proprio sistema neuromuscolare. Un rito accompagnato dal mantra cigolante della catena che, pedalando, viene sgranata e fatta ruotare come un rosario. Andare in bicicletta non implica alcuna stupida esibizione di potenza, non riduce brutalmente lo spazio vitale di chi ci vive accanto, non ha ricadute negative sull'ambiente, richiede solo ottimismo e sfrontato coraggio (dare le spalle alle automobili è un vero atto di fede affrontato dal nostro guerriero interiore). I popoli precolombiani usavano la ruota per i giocattoli dei loro bambini, i tibetani come mezzo di propulsione per le loro preghiere, ma la ignoravano per il trasporto di cose o di persone; la bicicletta è la splendida sintesi dei possibili usi della ruota: è insieme gioco, trasporto e preghiera.
Il magnifico scheletro esterno che permette alla razza umana di superare di gran carriera i limiti imposti dall'evoluzione biologica, cantato da Alfred Jarry, padre della patafisica e terrore delle strade della Belle Epoque.
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