Quando il rock'n'roll impose la sua legge in gran parte del mondo occidentale, furono in pochi a pensare che questa musica, tanto differente proprio per la sua natura generazionale, avrebbe portato con sé una straordinaria serie di novità. Il Nuovo Suono era innanzitutto figlio di un'innovazione tecnologica senza precedenti. La diffusione a largo raggio del 45 giri rendeva universale il suo messaggio e la recente proliferazione dei mezzi di comunicazione visiva (la televisione, soprattutto) ne diffondeva ovunque l'immagine. Negli anni Cinquanta cultura giovanile e media erano interdipendenti. Ma con il rock'n'roll cambiarono anche i luoghi della musica. Il ritorno in grande stile dei juke-box, che avevano vissuto un primo momento di gloria all'epoca del big band, dal 1937 al 1948, provocò il rapido successo degli espresso-bar. Nati su iniziativa degli emigrati italiani, divennero nella seconda meta degli anni Cinquanta il punto di ritrovo dell'americano medio. Si poteva stare in piedi, appoggiati al muro, o ballare nella semioscurità, condizione necessaria anche se non sempre sufficiente per discreti approcci con l'altro sesso. Fu questo, più che il gusto inedito ed economico di caffè e cappuccino, il motivo del grande successo degli espresso-bar. Al punto che alcuni religiosi aprirono locali sullo stesso stile per predicarvi il Vangelo. «I rocker hanno insegnato agli americani come spremere da una sola libbra di caffè ottanta tazzine», scrisse un giornalista inglese. Ma nemmeno l'Inghilterra si salvò dal fenomeno: il primo bar, il Coffee Cup, apri ad Hampstead nel 1957. Fu reso celebre da periodiche frequentazioni di Tommy Steele; un anno dopo i bar erano più di tremila. Erano garage, stanzette, vecchi padiglioni o stazioni di servizio rimesse a nuovo e adattate alla circostanza. Due erano gli oggetti immancabili: la macchina italiana per espresso e il juke-box. Il primo ad associare l'idea della riproduzione musicale a quella della macchina automatica funzionante a moneta fu Thomas Alva Edison, l'inventore della prima macchina capace di riprodurre dei suoni. Il suo fonografo a rulli di cera,
lungi dall'essere utilizzato come elettrodomestico per uso familiare, era destinato, fra i tanti progetti, a trasformarsi nel mezzo di diffusione per le «biblioteche musicali». La prima fu inaugurata a Parigi, nel 1897, dalla Pathé. Una lunga fila di poltroncine di velluto con davanti dei pannelli di legno, una fessura per le monete e una specie di interfono, dentro al quale il cliente pronunciava il nome della romanza prescelta. L'automatismo era apparente; dietro ai pannelli si muoveva una quarantina di inservienti che caricavano il cilindro nel fonografo (la scelta era tra 1.500 cilindri) e raccoglievano i soldi. Dall'altra parte, l'ignaro ascoltatore si toglieva la tuba, calzava la piccola cuffia e si lanciava in quei suoni gracchianti e miracolosi. Il successo di questi saloni nelle città europee (a Milano c'era il Bar Automatico) e, specialmente, in quelle americane, convinse le nascenti industrie fonografiche ad approfondire la ricerca di un meccanismo automatico che soddisfacesse le richieste del mercato. La diffusione dei locali atti all'ascolto fu improvvisa e travolgente: si istituirono società che appaltavano le macchine e provvedevano a veloci sostituzioni dei cilindri. Ma il fonografo era viziato da notevoli difetti e la diffusione, nei primi anni del Novecento, del grammofono a dischi fini inevitabilmente con l'affossare le macchine a moneta. La rinascita avvenne grazie al mezzo che, invece, sembrava dover dare il colpo di grazia: la radio. Senza la possibilità di inserirsi nella programmazione destinata ai bianchi, con i race records banditi quasi ovunque, i neri si radunavano nei juke joints ai margini delle città, locali a metà strada tra il bar e il postribolo, per ascoltare da scalcinati grammofoni la loro musica. Fu per questo povero, ma appassionato pubblico che, nel 1928, fu progettato il juke-box. Si chiamava Audiophone, fu inventato probabilmente da Justus Seeburg, uno svedese, e permetteva la selezione di otto dischi ascoltabili su una sola facciata. Ma il vero padre del juke-box, colui che ne decretò l'enorme e rapida diffusione, fu Homer Capehart, alla guida del leggendario Wurlitzer, ancora oggi icona degli appassionati di rock'n'roll. Fu lui a sfruttare per primo il matrimonio tra macchina e musica: dietro l'espansione dei dischi a piccolo formato e l'esplosione del juke-box il rock'n'roll rivelò l'inedita fisionomia della musica riprodotta più che eseguita. Ma la partecipazione non era minore; anzi, il jivin', quello che oggi chiamato rock'n'roll figurato, rappresentava, con le sue acrobazie e il suo entusiasmo, un esempio di adesione totale al ritmo che si ascoltava. Così, i juke-box divennero l'anello fondamentale della catena ascolto-ballo. Rinnovati nell'aspetto — Seeburg aveva lanciato con incredibile fortuna un modello in cui tutta la meccanica era visibile nei suoi movimenti dall'esterno —, ristrutturati nella forma grazie all'uso dei dischi a piccolo formato, incrementati nella tecnica (ora si potevano selezionare più di cento brani), gli eredi del fonografo a moneta conquistarono gli Stati Uniti. Non c'era artista che non posasse per qualche foto pubblicitaria accanto all'ultimo modello della Ami o della Wurlitzer; i più accaniti se ne fecero installare uno in casa, accanto al grammofono. E il juke-box arrivò finalmente, via Inghilterra, in Italia. «È un mercato enorme, tutto da scoprire», scrive «Musica e dischi» nel 1956; poche pagine dopo ecco la pubblicità dei primi dischi di Elvis; in qualche giorno sarebbe arrivato il flipper. L'America, ora, era davvero a portata di mano.