La città di Afyonkarahissar, che in turco significa per l'appunto Castellonero dell'Oppio, si stende attorno ad uno sperone d'arenaria alto una cinquantina di metri, in cima al quale si trovava il castello nero in questione, che vigilava sull'oppio di tutta la provincia che confluiva in città ogni estate. Attorno al 1800 si trattava di un'attività ordinata, metodica e accuratamente regolata, che proseguiva in questo modo da quasi ottocento anni.
Quando soffia il vento giusto, le donne di Afyon vanno nei campi a raccogliere il succo del papavero, e il vento che soffia all'inizio dell'estate sull'altopiano anatolico, in Turchia, scuotendo dolcemente nel tardo pomeriggio gli ultimi petali di papavero rimasti, è proprio quello che ci vuole. Dopo aver inciso due linee per il lungo sulla capsula verde, la donna che pratica le incisioni tiene in mano per un momento lo stelo, e il lattice esce da solo, attraverso quei piccoli tagli, ad incontrare il soffio fresco e carezzevole della brezza. Ne viene fuori soltanto una goccia: se il vento fosse appena più forte, il succo colerebbe e andrebbe perduto, ma il vento giusto lo fa solo uscire, lo fissa sulle scanalature e comincia subito a farlo seccare. Il papavero turco non è una varietà molto produttiva, e venticinque chili per ettaro sono già un ottimo risultato. Prendendo il vento durante la notte, il succo diventa di un colore perlaceo, poi rosato, e poi quasi marrone. Il mattino dopo, quando le donne tornano a staccarlo (nella provincia di Afyon dopo la metà di giugno non c'è pericolo di rugiada), l'oppio assomiglia già molto a quello che il consumatore fumerà o mangerà. L'oppio ed i petali sono praticamente le uniche parti della pianta che le donne di Afyon non adoperano: i semi finiscono nel pane e le foglie nelle insalate, l'olio si usa per cucinare, con gli steli s'intrecciano spessi tessuti con cui si rappezzano i soffitti, e le capsule seccate e tritate diventano mangime per il bestiame. Ad Afyon soltanto gli uomini fumano oppio, e neanche tanto: la maggior parte viene confezionato dalle donne in pani regolari di poco meno d'un chilo, che vengono avvolti in foglie di papavero e lasciati quindi ad indurire all'aria aperta un paio di giorni. Poi i pani vengono liberati dalle foglie e cosparsi di un leggero strato di semi di acetosa, per impedire che si appiccichino l'uno all'altro, e infine vengono messi in ceste di vimini foderate di tela per essere trasportati a Castellonero dell'Oppio.