La guerra da poco conclusa ha distrutto le famiglie di due ragazzi romani, Giuseppe e Pasquale, che vivono facendo gli “sciuscià” (cioè i lustrascarpe per i soldati americani: dall'inglese shoe-shine) nelle vie della capitale. Con i soldi così guadagnati, essi realizzano il sogno di possedere un cavallo bianco, ma vengono messi in carcere perché invischiati senza colpa in un losco affare. Nella casa di correzione la loro amicizia è compromessa dalla soggezione a un mondo dominato da adulti autoritari, infidi, egoisti: Giuseppe evade e corre a prendere il cavallo. Pasquale Io insegue e ne provoca la morte.
Erano i giorni che sapete, e ne avevo già visto abbastanza per sentirmi profondamente turbato, sconvolto: le donne che andavano in camionetta con i soldati, gli uomini e i ragazzini che si buttavano a terra per afferrare le sigarette e le caramelle. Agli adulti pensavo meno che ai bambini: e pensavo: “adesso si che i bambini ci guardano!”. Erano loro a darmi il senso, la misura della distruzione morale del paese: gli sciuscià.
(Vittorio De Sica, in “Tempo” n. 50, 16 dicembre 1954)
Secondo un deputato, i nostri film dovrebbero sempre finire lietamente. ci ha consigliato di chiudere lietamente tutte le nostre storie. S'incassa di più, dice. Il deputato crede che gli scrittori e i registi italiani premeditano storie tristi a ogni costo? La vita i bella, egli grida dai banchi di Montecitorio. Quando sarà ministro mi farà arrestare perché ho concluso il soggetto di Sciuscià con una morte. Ah, vogliono uscire indisturbati dal cinema, si accontentano di simulacri e gli uomini vivi li seppelliscono con un lampo della loro mente per non udirne i lamenti.
(Cesare Zavattini, in “Rinascita” n. 3, marzo 1949)
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