L’ALBERO DEGLI ZOCCOLI di Ermanno Olmi
Vita quotidiana di un gruppo di famiglie contadine che vivono in una cascina della campagna bergamasca, fra il 1897 e il 1898. La vedova Runk chiede — e ottiene — la grazia divina affinché una mucca malata guarisca; il Finard perde una moneta d'oro e per la rabbia si sente male (viene curato da una “donna del segno”), il nonno Anselmo riesce a far maturare i pomodori qualche giorno prima degli altri: Stefano e Maddalena si sposano e vanno in viaggio di nozze a Milano, nei giorni delle cannonate di Bava Beccaris; il Battisti taglia un albero del padrone per farne un paio di zoccoli per il figlio, e viene cacciato. La vita di tutti si svolge secondo codici fissi come riti, i legami sociali della comunità sono quelli sanciti dalle regole della religione cattolica.
Il contadino compiva certo dei grandi atti di fede. Del resto, la natura stessa del suo lavoro richiedeva continuamente un atto di fede; lui non conosceva il fenomeno bio-chimico attraverso il quale un seme si trasforma in albero da frutta, ma lui, affidandosi alla natura in questa collaborazione straordinaria, seminava, chiudeva il seme sotto terra e attendeva con un grande atto di fede che a primavera spuntasse da sotto qualcosa. Noi invece siamo continuamente espropriati da questi atti di fede dall'attuale assistenza sociale, dalla cassa per le malattie e gli infortuni, tutte queste cose che ci assicurano (in nome poi di chissà cosa e con quali pretese?) la tranquillità. Ma quale tranquillità? Vediamo come i paesi più assicurati del mondo sono i paesi più avviati al suicidio!
(Ermanno Olmi, in “Positif”, n. 210, settembre 1978)
La visione del mondo che Olmi comunica col suo film è questa: la storia è una lotta tra colpa e innocenza, tra peccato e santità, non c'è nessun altro movente. Su questa strada Olmi va più avanti, e dice: tutta l'innocenza da pane dei contadini, i contadini non possono che essere santi. Olmi non descrive soltanto, ma sostiene e propone una morale che non serve altro che a perpetuare lo stato di miseria e di sofferenza che lui stesso racconta. E la morale che non esclude soltanto la ribellione e la violenza, ma anche la denuncia e addirittura la presa di coscienza. Ogni volta (senza eccezioni) che un artista (scrittore o regista o altro) offre a un pubblico borghese la descrizione del mondo proletario o sottoproletario, lo fa, cosciente o no, per ottenere uno di questi due scopi: offendere il pubblico oppure cercarne la complicità. Olmi cerca la complicità. Il film fa appello ai buoni sentimenti e riduce la storia a favola. Olmi descrive a lungo la miseria economica e sociale del mondo contadino, ma dice che tanta grandezza religiosa si accompagnava a quella miseria: non gli viene mai il sospetto che questa grandezza e quella miseria stiano tra di loro in un rapporto di causa ed effetto.
(Ferdinando Camon, in “Il Giorno”, 19 ottobre 1978)
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