lunedì 2 ottobre 2017

L'INVITTO (Aparajito) di Satyajit Ray

L'adolescente Apu si reca a Calcutta a studiare, nonostante i tentativi della madre di trattenerlo presso di sé. Gli si apre un mondo nuovo. Sorge in lui un contrasto tra i legami col villaggio natale e l'ansia dei rapporti più vasti. Quando la madre muore, al dolore si unisce in Apu un senso di liberazione.

Lasciatemi raccontare brevemente l'esperienza dei miei primi due film. Quando nel 1952 cominciai Pather Panchali, ero consapevole delle conseguenze di allontanarmi dalla strada battuta: la passata esperienza di altri registi mi aveva messo in guardia. Pather Panchali, fu un successo nelle città. Anche nei sobborghi andò inaspettatamente bene. Col secondo film (L'invitto) mi feci più ardito e le conseguenze furono meno felici. I mio errore, da un punto di vista commerciale, fu di prendermi libertà ancora maggiori che in Pather Panchali col materiale d'origine. Fu a questo punto che entrarono in campo i festival cinematografici europei. I premi vinti dai due film diedero un nuovo aspetto alla situazione, e io mi resi conto che un regista bengalese non deve dipendere solo dal mercato interno.
(Satayajit Ray, in "International Film Annual" n. 2, 1958)

Quel che ammiro soprattutto nel L'invitto, come in Pather Panchali, è la qualità e il tono di un racconto che sa far passare in seconda linea le peripizie drammatiche a vantaggio della sostanza psicologica e morale. Se una delle ambizioni raramente raggiunte dal cinema può consistere nella concorrenza con il romanzo, e in particolare con le risorse soggettive del linguaggio che paion contraddire l'obiettività dell'immagine, L'invitto mi sembra costituire uno degli esempi più convincenti di film romanzo.
(Andrè Bazin, in "Cinema Nuovo" n. 114-115, 15 settembre 1957)

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