martedì 19 maggio 2015

L'uomo che mi seguiva alla stazione

È notte. Mi fanno entrare in un ufficio. Una giovane donna sta scrivendo a macchina; alla sua destra in un piatto un panino. Sono affamato.
La donna continua il suo lavoro senza parlare. Un poliziotto è di guardia all’ingresso della stanza. Ho le mani legate. Con tono umile e supplichevole chiedo di poter andare in bagno. “Slegatelo e accompagnatelo” risponde. Con la porta semiaperta estraggo i documenti che tengo piegati nei boxer e li faccio a pezzi e li butto nel water e tiro lo sciacquone e mi giro lamentandomi per dei dolori alla pancia. 
“Andiamo”
Sono preoccupato ma non lo faccio vedere. Che cosa possono farmi adesso? Tutte le prove sono distrutte, di cosa possono accusarmi?
Attraverso un corridoio, sento rumori sordi e grida strozzate. Mi si gela il sangue. Il poliziotto si ferma davanti ad un ufficio, apre la porta e mi intima di entrare. La richiude alle mie spalle. Riconosco quel volto, è l’uomo che mi seguiva alla stazione.
Seduto sul bordo della scrivania, in abito marrone marcio, mi fissa: “I suoi documenti sono falsi: come ti chiami veramente? Chi sei?”
Rispondo.
“È falso! Stai mentendo la carta d’identità è stata falsificata! Dimmi chi sei?”
Disgraziatamente mi viene da ridere.
Gli schiaffi che ricevo mi fanno pentire di aver riso. Mi getto su di lui e gli assesto un pugno memorabile. Si riprende in fretta, non chiama nessuno, mi guarda con freddezza, poi estrae dalla giacca un revolver non di ordinanza che appoggia sul tavolo.
Non ricordo più quanti pugni e calci hanno colpito il mio volto ed il corpo, ferendomi senza rimedio. Provo rabbia e dolore. Dolore per la bocca che sanguina, così come le orecchie, dolore per le ossa che scricchiolano sotto i colpi. Perdo la nozione del tempo, non vedo più il mio agressore, soltanto i colpi.

(Tatto da ROMANZO IN POLVERE di Gepy Goodtime, edizioni La Paz, Caracas 1977)

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