L'azione si svolge in Italia all'epoca della Restaurazione, nel 1816. Fulvio Imbriani, un intellettuale aristocratico membro di una setta rivoluzionaria (quella dei Fratelli Sublimi), tradisce i suoi compagni di lotta, i quali finiscono massacrati proprio dai contadini meridionali che avrebbero voluto guidare in una sollevazione popolare. Lo stesso Fulvio viene coinvolto dal proprio tradimento e ucciso. Rimane unico superstite Allonsanfan, figlio del «Grande Maestro» della setta.
Adesso il momento è di ripensamento, di riflessione critica: forse abbiamo rinunciato a troppo, buttato via troppe idee ancora valide. Non ci castriamo, non ci rinneghiamo: tutte le avanguardie hanno sempre fatto due passi avanti e uno indietro. In questo film noi recuperiamo lo spettacolo, il personaggio. È un apologo politico; la politica è oggi il problema centrale, essenziale quanto la ricerca di Dio per altri periodi storici. Chi abbandona la propria classe per affiancarsi al popolo nella lotta rivoluzionaria, può tornare indietro soltanto a prezzo della degradazione e morte di se stesso. in Allonsanfan non esiste il celeste, colore della felicità, Mastroianni ha sempre addosso qualcosa di giallo: perché giallo è il colore della peste del tradimento. (Paolo e Vittorio Taviani, in "La Stampa”, 17 ottobre 1973)
I Taviani hanno acutamente attribuito il tradimento di Fulvio alla nostalgia per un modo di vita edonistico, da «particulare» guicciardiniano che, in un paese come l'Italia, alla cui bellezza, dolcezza e sensualità bisogna attribuire un'importanza addirittura storica, costituisce da sempre l'alternativa nazionale all'impegno politico. Un po' scherzando, si potrebbe dire che quello di Fulvio è un tradimento all'italiana. E anche all'italiana è lo sfondo a questo tradimento fatto di sensualità, di velleità e di fiacchezza, nel quale gli atti non corrispondono alle parole ma le parole continuamente illudono di essere ca-paci di agire: uno sfondo melodrammatico da grande opera dell'Ottocento, in cui il nostro misero Risorgimento si trasforma, un po' alla maniera di Visconti in Senso, in grandioso spettacolo. I Taviani hanno sentito forse il pericolo della soluzione neoromantica e l'hanno contaminata con distanze ed estraniamenti assai efficaci di tipo rechtiano e didattico che, alla fine, riconducono il film nei limiti della riflessione politica. (Alberto Moravia, in “L'Espresso”, 29 settembre 1974)
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