Non più autorità, molto più contraria alla felicità dell’umanità di qualche eccesso che si potrebbe produrre agli inizi di una società libera.
Al posto dell’organizzazione attuale, raggruppamenti di individui per simpatia ad affinità, senza leggi e senza capi.
Non più proprietà individuali; messa in comune dei prodotti; lavoro di ognuno secondo i suoi bisogni, consumo di ognuno secondo i suoi bisogni, cioè, secondo volontà.
Non più famiglia, egoista e borghese, che rende l’uomo proprietà della donna, e la donna proprietà dell’uomo; che esige da due esseri che si sono amati un momento di essere legati l’uno all’altro fino alla fine dei loro giorni. La natura è capricciosa, chiede sempre nuove sensazioni. Vuole l’amore libero. Ecco perché vogliamo l’unione libera.
Non più odio tra i fratelli, non più patrie, che gettano gli uni sugli altri degli uomini che non si sono nemmeno mai visti.
Sostituzione dell’attaccamento gretto e meschino dello sciovinista alla sua patria, con l’amore ampio e fecondo dell’Umanità Intera, senza distinzione di razza né di colore.
Non più religioni, forgiate dai preti per degradare le masse e dar loro la speranza di una vita migliore mentre essi stessi godono della vita terrestre. Occorre incominciare col lavoro di distruzione. Occorre gettare a terra il vecchio edificio tarlato.
Nel 1969 vede la luce la loro opera più ambiziosa, il doppio Ummagumma. Un album in studio con brani inediti, i quattro se lo spartiranno in parti uguali, dieci minuti a testa, per sbizzarrirsi ognuno con i sogni più sfrenati, e uno dal vivo con i vecchi classici, tanto per chiudere un ciclo.
Bella la foto che campeggia sul retro copertina, scattata su una pista di rullaggio del campo volo di Biggin Hill, con i roadies a far la guardia a un arsenale strumentale già di tutto rispetto: bacchette, rullanti, tastiere, chitarre e amplificatori disposti a forma di caccia bombardiere Phanthom.
Il disco live si apre con Astronomy Dominé, dove Gilmour si impadronisce del brano di Barrett infondendogli nuovo vigore con la sua chitarra, più rock meno psichedelica, dove l’astronave rolla e ruggisce nuovamente nell’atmosfera di qualche pianeta e lentamente accosta e spegne i motori. Roger Water lacera con urla agghiaccianti e primordiali il crescendo tumultuoso di Careful With That Axe, Eugene, insuperabile esempio di thriller-horror psichedelico che si trascina sottovoce per orientalismi ipnotici e bisbigli soprannaturali in una atmosfera di tragedia incombente, metà amplesso metà trip, metà incubo metà delirio: un capolavoro. Apre la seconda facciata del disco live, Set the Controls For The Heart Of The Sun, governata dalle percussioni di Mason e dalla voce di Waters, poetica e delicata come non mai, anch’essa notevolmente allungata nella parte centrale dove ancora una volta è l'organo ad essere protagonista in questa ipnotica canzone dal significato oscuro. Chiude la seconda
facciata del Lp
A Saucerful Of Secrets, la piccola sinfonia rock suddivisa in quattro movimenti esalta il grande affiatamento della band, capace di dosare sapientemente volumi, echi, riverberi, timbri e suggestive parti improvvisate, il brano e rivisitato in versione romantica, con struggente inno finale di Gilmour soltanto gridato, sugli accordi religiosi dell’organo. L’onore di aprire il disco di studio aspetta a Wright, il cui Sysyphus è un concerto pianistico in quattro movimenti in bilico tra colonna sonora di un film storico, sinfonia romantica, impressionismo pianistico e dissonanze alla Luigi Nono. Il brano si chiude con le percussioni in un finale metafisico che passa dalle quiete campestre all’uragano cosmico. Roger Waters contribuisce al completamento della prima facciata del disco con due tipiche ballate, la prima è Grantchester Meadows, delicata confessione acustica che prende nome e ispirazione dai prati e boschi in riva al fiume Cam dove i ragazzi di Cambridge si recano a prendere il sole e fare picnic. È il momento più melodico del disco con rumori di bosco, uccellini e ronzio d’insetto. Da lì si passa a Several
Species Of Small Furry Animals Gathered Together In A Cave And Grooving With A Pict, rapsodia indemoniata per voci elettroniche e percussioni che simulano un tripudio di bestioline della foresta, la prova generale su disco di quegli esperimenti e giochi con il rumore che diventeranno un tratto inconfondibile della band. L’ultima facciata del doppio si apre con The Narrow Way di David Gilmour, il pezzo, diviso in tre sezioni, parte con una introduzione di chitarra acustica, mentre la seconda parte è caratterizzata da una linea di basso, su cui si inseriscono le mprovvisazioni di chitarra elettrica e tastiere. Nella terza si fa un brusco ritorno alla classica forma canzone. Dodici minuti di pura psichedelica che ci riportano alla musica cosmica e acida dei primi Pink Floyd. Chiude l’album l’inconsueta composizione di Mason, The Grand Vizier’s Garden Party, una suite in tre parti dedicata alla festa del Gran Visir nel suo giardino, imperniata, neanche a dirlo, sulle percussioni. Un delicato flauto invita all’entrata della festa dove aleggiano profumi orientali piuttosto densi, non lasciando presagire nulla di quanto troveremo nel giardino del Gran Visir: l’intrattenimento va avanti a colpi di gong, al suono dei timpani classici, fino ad una complessa batteria rock e a un nutrito assortimento di effetti metallico - lignei, Mason governa il rumore trasformandolo in musica.
Un vecchio portiere d'albergo, che vive in un appartamento con la figlia e l'amante di lei, data l'età, deve lasciare l'uniforme gallonata per fare il custode dei gabinetti. Al colmo delle umiliazioni e della sfiducia, l'uomo e sull'orlo del suicidio quando, per una inattesa eredità, diventa ricco e alloggia nell'albergo in cui serviva.
Nella loro immagine (delle scenografie) c'è del dramma per l'occhio, secondo il modo in cui sono state disposte o fotografate. Attraverso la loro relazione con altri oggetti, o con i personaggi, diventano elementi della sinfonia dei film.
(Friedrich Wilhelm Murnau, in George Sadoul, "Il Cinema", Sansoni, Firenze 1967)
Murnau con L'ultima risata aveva affrontato il problema del racconto cinematografico sul piano di un realismo psicologico a forti tinte drammatiche. Ed aveva girato un film senza l'uso delle didascalie, unicamente basandosi sul gioco della recitazione e sopra un attento e abile montaggio per contrasti.
(Luigi Rognoni, "Cinema muto", Bianco e Nero, Roma 1952)